Nonostante non ci sia governo che non si riempia d’orgoglio per una qualche riforma sulla scuola con cui (in genere) getta nel caos docenti, famiglie e studenti, in Italia in pochi sembrano accorgersi di un fenomeno preoccupante: negli ultimi quindici anni, quasi tre milioni di ragazzi e ragazze (più maschi che femmine, più alunni degli istituti professionali che dei licei, più al sud che al nord, più stranieri che nativi) abbandonano le superiori, spesso soltanto al secondo anno, facendo lo slalom anche rispetto a quell’obbligo per l’istruzione stabilito all’età di 16 anni. Fra una legge e l’altra che reimmagina le ore da passare fra i banchi, uno slogan che strizza l’occhio alla formazione privata e un altro che prende in giro la cultura classica, si perdono intanto per strada un buon 15% di giovani (la percentuale è scesa, ma non ha granché di rassicurante e colloca l’Italia in un gradino bassissimo della scala europea), molti dei quali rimarranno in una condizione di vita sospesa. Andranno a ingrossare le fila dei neet: «not in education, employement, training».

Sono proprio loro, figli e figlie di molte classi sociali differenti, i candidati numero uno all’emarginazione permanente, un enigma sociale in apparenza irrisolvibile (non certo con la retorica del somaro e meritevole), ghettizzati dalla loro stessa mancanza di opportunità e desiderio, «cervelli spenti», dimenticati da tutti se non quando assurgono agli onori della cronaca per qualche nefandezza commessa.

Forse allora, invece di preoccuparsi di trasformare sempre di più uno studente in un perfetto cliente, bisognerebbe ricominciare da qui, da questa ineguaglianza di partenza che fa precipitare alcuni lungo un pendio senza appigli e solleva sul podio altri, i cosiddetti meritevoli, quelli per cui la scuola neanche sarebbe necessaria, dato che la motivazione alla competenza fa già parte del loro dna (famigliare, ambientale, sociale, individuale). Non si tratta qui di rispolverare nostalgicamente un modello educativo alla don Milani. I tempi sono mutati, la fonte principale di conoscenza del mondo viene fornita oggi dai Social Network. Casomai, sarebbe opportuno che al posto dell’alternanza scuola/lavoro, al posto di un insegnamento con una vocazione aziendalistica, si rintracciasse un significato collettivo a parole quali educazione, apprendimento, competenza.

Abbiamo tanti piccoli e medi imprenditori e altrettante imprenditrici in Italia. Pochi e poche intellettuali che sappiano decodificare le informazioni, non lasciarsi investire da bugie né da corruzione di pensiero. E soprattutto la piaga che non ci permette di essere in testa alle sempreverdi classifiche di merito europeo e straniero è l’analfabetismo di ritorno, quella disabitudine alla comprensione di un testo e alla capacità di ragionamento, abilità che non interessa più incentivare. Anzi, è osteggiata, con l’abbandono del sistema bibliotecario e con lo sprezzo della lettura a favore di anonimi e veloci test «indicatori».