Dalle navi che hanno salvato vite sbarcano i «fragili», i «vulnerabili»: quelli che nemmeno una politica disumana – e contro il diritto – poteva ancora costringere in mare. In balia delle onde e del tormento dell’attesa in condizioni che non garantiscono la dignità, dopo una fuga da torture e violenze. Due considerazioni.

La prima. Lo sbarco non è una gentile concessione, con la quale graziare chi si è reso colpevole di attentare con il suo esistere all’invalicabilità delle frontiere nazionali, nel riverbero di un pallido senso di umanità o, meglio, nell’impossibilità, di fronte a palesi violazioni, di perseverare. Essere condotto in un «luogo sicuro» è un diritto di ogni naufrago e, come ribadisce la Corte di Cassazione, nel caso Rackete, «non può essere qualificato «luogo sicuro», per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse». Ancora: la nostra Costituzione (art. 10, c. 3) sancisce il «diritto d’asilo nel territorio della Repubblica», ovvero il diritto di ingresso nel territorio per chiedere l’asilo, e il diritto di permanervi (quantomeno) sino all’esito della domanda. Concepire i diritti come concessione e negarne l’universalità, li trasforma, con una eterogenesi dei fini, da strumento di dignità e di emancipazione, nel presupposto di rapporti di uguaglianza, a elementi attraverso i quali esercitare un potere e delimitare lo spazio della diseguaglianza.

Quando si recinta (che sia la terra oppure l’esercizio dei diritti), si afferma una logica escludente, nasce la disuguaglianza e con essa rapporti di dominio.
Seconda considerazione. Il ricorso a categorie come vulnerabilità e fragilità, è funzionale a frantumare la presenza di un’unica condizione, indebolendo «la forza del numero» e del collettivo; altro è considerare in chiave emancipante le condizioni, ovvero «gli ostacoli di ordine economico e sociale» (art. 3, c. 2, Cost.), di ciascuno e di tutti.

È accattivante l’immagine della protezione dei vulnerabili e dei fragili, ma ricorda le ambiguità della garanzia del «nucleo essenziale» di un diritto o i «livelli essenziali delle prestazioni» (art. 117 Cost., c. 2, lett. m)): dietro la parvenza di una (maggior) tutela, si annida un restringimento dei titolari dei diritti o un indebolimento del loro contenuto.

È la stessa logica sottesa alla politica dei bonus, dei click day, delle restrizioni al riconoscimento del reddito di cittadinanza: non tutti sono liberati dai bisogni che ostacolano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione alla vita della società, ma solo alcuni.
Non è solo un «divide et impera», ma anche un modo per scaricare la «colpa» della propria condizione in capo alle persone: non abbastanza veloci con la tastiera per prenotarsi il beneficio, non abbastanza fragili per essere ammessi sul territorio. Perdenti nella competizione, non meritevoli: la competitività come paradigma e il merito che legittima la disuguaglianza, colpevolizza l’esclusione e infrange l’universalità dei diritti.

È la visione individualista del neoliberismo, che pervade lo spazio dei diritti, ne trasfigura il senso.
I diritti, come ai loro albori nel giusnaturalismo, con lo ius migrandi di Vitoria a legittimare le conquiste spagnole, sono piegati alle esigenze, economiche o politiche, e naufragano nel momento in cui a rivendicarli «sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana» (Arendt).

La nave Humanity One che resiste in porto difende i diritti e il diritto contro abusi del potere. Il decreto interministeriale che intima alle navi di riprendere il mare senza consentire lo sbarco di tutti i naufraghi sarà impugnato di fronte al TAR Lazio, per plurime violazioni di norme internazionali, europee e nazionali, così come si annunciano esposti alla magistratura per violazioni dei diritti, resta che disobbedire in casi come questo significa esercitare una resistenza costituzionale. Il capitano della nave non va lasciato solo, la sua resistenza in porto è nel solco di una disobbedienza nel nome di «tutto ciò che si interpone tra un futuro per l’umanità e la fine della civiltà» (Fromm).