Dopo quasi trenta anni di ritorno al parlamentarismo, dopo la dittatura di Pinochet, solo alcuni giorni dopo nei quali il presidente Piñera vantava la tranquillità «da oasi» del proprio paese rispetto al resto dell’America latina, il Cile assiste a scene che ricordano sinistramente gli anni Settanta. Militari nelle strade, il coprifuoco, lo stato d’emergenza.

Dopo il ciclo di manifestazioni studentesche avvenute durante il primo mandato di Piñera (2010-14) non si erano più visti segni di un disagio così tangibile e sanguinoso.

Perché ora? E per quale motivo? Tutti i media riportano il fatto che a scatenare le proteste sia stato un aumento del prezzo della metropolitana. Alcuni commentatori rilevano l’esiguità dell’aumento, quasi a suggerire la irragionevolezza della reazione.

Ma la questione va contestualizzata. Il ritorno al parlamentarismo non può essere considerato un ritorno alla democrazia, quanto meno sotto il profilo dell’economia. La repubblica cilena eredita dal regime di Pinochet robusti tratti del suo assetto economico; che è frutto di una rovinosa guerra contro le istituzioni democratiche ma anche contro una gestione dell’economia che rifiuti di asservirsi completamente al mercato (come fu l’esperienza di Allende); una guerra contro la popolazione, tanto con gli strumenti delle torture fisiche ai dissidenti, quanto con gli affilati strumenti dell’oppressione economica nell’articolato programma economico imposto dalla giunta golpista: il famoso «mattone», frutto degli sforzi di dieci economisti, di cui otto avevano studiato all’Università di Chicago ( i famigerati Chicago Boys).

L’essenza di tale piano non è mai stata messa in discussione, rimanendo al centro del dibattito fra la destra e la sinistra slavata della Concertatiòn, restata al di là, nonostante qualche innesto indubbiamente positivo, di una seria messa in questione del modello fondamentale.

Il frutto che è nato alla fine è un paese profondamente diseguale: l’indice Gini – che calcola le implicazioni politiche nella diseguaglianza sociale nel mondo – lo colloca più a destra di Messico, Turchia, Stati uniti e Gran Bretagna – tutti paesi paurosamente malfamati per la sperequazione sociale. Il sistema educativo resta profondamente privatizzato ed obbliga i ragazzi ad indebitarsi per gli studi a ritmi nordamericani: una ricerca di qualche anno fa valutava il numero di giovani indebitati nell’ordine di grandezza di oltre un milione, su una popolazione complessiva di 17,6 di cui 2,8 milioni di età compresa fra 20-29 anni. Una ipoteca sul futuro assai pesante.

Allo stesso modo l’aver lasciato al mercato la determinazione dei costi di farmaci, bollette, copertura sanitaria provoca malcontento diffuso.

La riforma dell’indebitamento studententesco si deve al governo di Lagos nel 2005; lo stesso che ha poi fatto la legge sulla determinazione delle tariffe del trasporto pubblico, su cui il governo in carica ha peraltro un ruolo non particolarmente incisivo: ne prevede un periodico rialzo da parte di un comitato tecnico formato da esperti indipendenti (la cosa suona familiare…) indicizzandosi al costo del petrolio e di altri fattori.

Peccato che invece i salari non vengano indicizzati in automatico con l’inflazione; così è evidente come un innalzamento anche percentualmente modesto abbia comportato un grave disagio: la goccia che fa traboccare il vaso. Ma si tratta di un’oppressione che non viene solo dall’attuale destra al governo – sebbene adesso la incarni e la rivendichi – ma da un assetto strutturale che viene da lontano e che andrà sfidato apertamente per riportare maggiore eguaglianza e giustizia sociale