La storia inizia così. C’era una volta nell’antica capitale imperiale di Kyoto del lontano Giappone una famiglia di potenti guerrieri: gli Ashikaga. Nel 1336, con l’appoggio dell’imperatore, presero il comando del paese, dando inizio all’epoca Muromachi che durò fino al 1573. Fu una delle più ricche e affascinanti della storia giapponese e prese il nome dal quartiere di Kyoto dove il terzo shogun Ashikaga Yoshimitsu aveva posto la sua residenza.
Proprio a Yoshimitsu (1358 – 1408) e al nipote Yoshimasa (1435 – 1490), ottavo shogun Ashikaga, si deve la fama di questo clan, non tanto da un punto di vista militare e strategico (la fine del Muromachi è nota come «periodo degli Stati combattenti» tante furono le faide che dilaniarono il paese), quanto piuttosto da un punto di vista estetico-artistico. Entrambi furono uomini di grande cultura e intelletto, raffinati estimatori e promotori delle arti: dalla pittura al teatro alla poesia, dall’arte del tè a quella dei fiori, dall’architettura edile a quella di giardini.
Da esteti guerrieri quali erano avevano gusti essenziali che trovavano corrispondenza soprattutto nella filosofia buddhista zen e nelle discipline ad essa legate: la pittura monocroma ad inchiostro (sumie) e la calligrafia (shodo), il teatro no, la via dei fiori (kado) e la cerimonia del tè (sado). Entrambi erano mecenati e artisti allo stesso tempo e, una volta assolta la loro carica politica come era consuetudine, si ritirarono vicino alle montagne di Kyoto facendovi costruire le rispettive residenze e circondandosi di bellezza. Una bellezza ancora oggi ammirabile che corrisponde ai luoghi più noti e suggestivi di Kyoto.

Le due «opzioni»

Yoshimitsu scelse la zona montuosa a nord-ovest di Kyoto (Kitayama) e nel 1394 iniziò i lavori per erigere quello che oggi è noto come Padiglione d’oro (Kinkakuji); Yoshimasa scelse le montagne orientali di Kyoto (Higashiyama) e, prendendo a modello la residenza del nonno, a partire dal 1482 cominciò a costruire il Padiglione d’argento (Ginkakuji). Entrambi i luoghi, durante gli anni in cui i due shogun in ritiro vi risiedettero, rappresentarono i massimi centri culturali dell’epoca dove si coltivarono quei gusti e quei principi estetici che ancora oggi sono i capisaldi della cultura giapponese con maggior presa anche sull’Occidente: si pensi al concetto di semplicità e sobrietà convogliato nel wabi-sabi. I complessi residenziali furono trasformati dopo la morte e per volere dei due shogun in templi zen: il Padiglione d’oro dal 1409 divenne il Rokuonji (Tempio del parco dei cervi); il Padiglione d’argento dal 1490 il Jishoji (Tempio della benevolenza splendente).
Entrambi gli edifici, con gli splendidi giardini che li circondano, sono in parte ricostruzioni postume, perciò elementi originali sono mescolati a scelte successive. Il Padiglione d’oro in particolare, le cui pareti oggi risplendono come nuove, riflesse sulle acque del laghetto su cui si affaccia, è stato ricostruito nel 1955 dopo che nel ’50 un monaco, impazzito, gli appiccò fuoco. Mentre quello d’argento in realtà non ha nulla di così prezioso ed è un complesso in legno tra i più sobri ed eleganti del Giappone, assimilabile a una pittura monocroma. Opposti nell’impatto architettonico, sono però ugualmente apprezzati soprattutto per la bellezza, la varietà, l’eleganza dei giardini che li avvolgono, concepiti come parte integrante delle residenze che si aprivano con terrazze affacciate sui rispettivi laghetti artificiali. Intorno, aree verdissime con piante ad alto fusto si alternano a parti invece di sole rocce e muschio, assimilando dentro i confini del complesso tutta la varietà del paesaggio giapponese: monti, fiumi, laghi, coste, scogliere, di modo che chi vi risiedeva non aveva più bisogno di spostarsi.
Si racconta che Yoshimitsu fosse solito ritirarsi a meditare in un altro giardino zen allora noto, e oggi patrimonio dell’Unesco, il Saihoji, o Kokedera (Tempio del muschio) sul quale avrebbe anche fatto modellare il proprio intorno alla residenza dorata. Si tratta di un giardino riconcepito da uno dei monaci zen più influenti dell’epoca, Muso Soseki, quando divenne abate del tempio e lo trasformò da luogo di culto buddhista della Terra Pura a scuola zen Rinzai. Il più riuscito tra i tanti che l’abate costruì. L’arte dei giardini infatti faceva parte di quelle discipline, insieme alla pittura, alla calligrafia, alla cerimonia de tè che aiutavano il percorso meditativo dei monaci zen, perciò la disposizione di ogni elemento seppur naturale risponde non a puri caratteri estetici, ma ad un pensiero che deve condurre all’astrazione, al simbolismo. Al centro del verdissimo Saihoji vi è un laghetto, si pensa già presente dal VII secolo e concepito per ricordare la ricchezza e la bellezza del Paradiso d’Occidente di Amida a cui tutta la nobiltà di Kyoto aspirava come continuazione della loro ricchezza in terra.
Muso lo rimodellò e la sua forma attuale che si snoda tra isolette artificiali sembra ricalcare quella del carattere cinese di «cuore» (kokoro). I tanti piccoli ritiri che vi aveva dislocato intorno per contemplare la natura da diversi punti di vista e meditare oggi non esistono più, ma la sensazione di entrare in un paradiso coperto di fitto muschio dal verde splendente (oltre 120 varietà di muschio), nella penombra di aceri, bambù e grandi piante, permane. Così come permane traccia, nella parte superiore del giardino a cui si accede da un sentiero costellato di pietre e muschio, di uno dei primi esempi di «giardino secco» zen realizzato dallo stesso Muso. Karesansui, (lett.: «monti e acqua secchi»), in cui un’isola somigliante a una tartaruga è formata da un gruppo di rocce galleggianti sul muschio; una roccia piatta evoca la seduta per la meditazione zazen e una serie di pietre piatte disposte in gradini rappresentano il movimento della cascata.

Il mare e la luna

A tutto questo si ispirò Yoshimisu per il Padiglione d’oro e a entrambi gli esempi si rifece Yoshimasa, che non poteva essere da meno del nonno, per il suo Padiglione d’argento. Quest’ultimo riprese la forma dell’edificio con il tetto a doppia falda da un modello già usato da Muso dentro il Saihoji, e costruì il giardino su due livelli: uno di piante lussureggianti, sviluppato intorno al laghetto, con isolette a cui si può accedere da ponticelli di pietra e visibile dalle verande dell’edificio principale e dal Togudo che ospita la più piccola e più antica stanza per la cerimonia del tè; l’altro in forma di giardino secco, di sole pietre, lungo il pendio meridionale: un giardino da osservare senza entrarvi, davanti al quale soffermarsi per condurre la mente a uno stato più elevato.
Oggi sulla sponda del lago tra i due edifici si scorge anche una curiosa forma conica tronca eretta con piccoli sassi bianchi circondata da ghiaia rastrellata concentricamente. Si tratta di un intervento seicentesco con riferimenti alle onde del mare e alla visione della luna, una delle passioni di Yoshimasa a cui tante poesie sono state dedicate. Non si è certi sull’identità dell’architetto del giardino del Padiglione d’argento, si accenna a Zen’ami e al figlio Soami, due eccelsi pittori, maestri del tè, poeti e conoscitori dell’arte cinese che lavoravano come consiglieri di questi grandi patroni, o addirittura a Yoshimasa stesso.
Di certo quello che si percepisce dall’eleganza estrema di questi luoghi è la fusione magica della cultura di corte imperiale con quella guerriera e religiosa zen; e ancora il profondo legame tra senso estetico e senso religioso, che supera le divisioni tra scuole religiose e tra linguaggi artistici per affermare nella natura e attraverso la natura il respiro dell’essere umano, minuscola parte del tutto ma fondamentale. Il meraviglioso che va oltre lo stile.