Come risultato della travagliata storia che ha caratterizzato la sociologia italiana e la sua istituzionalizzazione nell’Accademia, profondamente avversate sia dal fascismo sia dalla a lungo egemone cultura idealista, l’Associazione Italiana di Sociologia (Ais) si è costituita solo nel 1983 (molto in ritardo rispetto ad altre analoghe Società, se si pensa che l’American Sociological Association è nata nel 1905) con l’intento di rappresentare un punto di raccordo per una «comunità» si studiosi caratterizzata da un ampio pluralismo politico-culturale e territoriale, se non di una vera e propria frammentazione. Da allora, con cadenza triennale, si svolge il Convegno Nazionale attraverso il quale gli «scienziati sociali» cercano di riflettere sullo stato dell’arte della loro disciplina e per discutire sui cambiamenti che investono la società italiana. A differenza delle più recenti edizioni, l’ultima, che si è svolta a Firenze e dedicata ad Antonio De Lillo e Guido Martinotti, studiosi di fama internazionale recentemente scomparsi, si è concentrata sulla «qualità del sapere sociologico».

In realtà, a dispetto di quello che potrebbe sembrare a prima vista, è un tema che entra nel cuore stesso delle dinamiche sociali contemporanee. Discutere del sapere sociologico significa infatti andare al cuore delle trasformazioni sociali che hanno investito il capitalismo contemporaneo. La rinuncia a fare ciò determina, secondo il neo direttore della London School of Economics Craig Calhoun, una marginalizzazione delle delle scienze sociali sia nelle università che nel più generale mondo della ricerca sociale. Calhoun lo ha fatto, partendo, dalla perdita di potere perfomativo della «nuova utopia» della fine del XX secolo, la cosiddetta «società della conoscenza», a causa della metamorfosi che ha assunto sotto i colpi della crisi economica globale. In alcuni contesti, invece, come quello australiano, anche in presenza di rilevanti tassi di crescita economica, è in atto una riduzione dei finanziamenti pubblici ai Dipartimenti di Scienze Sociali, proprio mentre cominciano ad essere inglobati nell’ambito degli studi aziendalistici o nel marketing. In sintesi, la sociologia, forse più di altre scienze sociali, vive la sua riduzione a semplice «sapere pratico», perdendo così la sua tensione ad essere anche interrogazione critica e razionale sull’azione collettiva e dei rapporti di potere esistenti nella realtà sociale.

Di questi temi abbiamo parlato con Paola Di Nicola, ordinaria di sociologia all’Università di Verona e neo-eletta Presidentessa dell’Ais.

Dopo 16 anni (dall’elezione di Laura Balbo nel 1998) le sociologhe e i sociologhi italiani hanno scelto nuovamente una donna come presidente. In più, nel 2011 è nata una sezione di «Studi di Genere» nell’Associazione. Nonostante questo, dai dati Istat leggiamo che l’Università (e la stessa sociologia) è ancora molto lontana da una condizione di effettiva parità tra uomini e donne. Secondo Lei cosa occorrerebbe fare per superare queste storture?

Al di là di dire che il problema è culturale e generazionale, per cui in prospettiva le cose miglioreranno, credo che alcune iniziative si potrebbero intraprendere. In particolare si potrebbe fare passare il principio che nelle strutture, in questo caso universitarie, in cui il rapporto numerico uomo-donna sia particolarmente sfavorevole per le donne, nell’assunzione di personale, anche docente, a parità assoluta ed effettiva di merito, la preferenza sia data alla donna. Pratica che dovrebbe venire meno quando la parità o quasi-parità numerica sia raggiunta. Una palese discriminazione al positivo, che verrebbe a colmare la tradizionale e spesso silenziosa discriminazione di cui le donne sono state e sono ancora vittime.

Come presidente dell’Ais quali sono i principali obiettivi che si propone di realizzare per il suo mandato?

L’università sta vivendo da anni momenti di grandi cambiamenti e turbolenze, i cui effetti futuri sono ancora tutti da valutare. I problemi sono molti, ma credo che sia necessario in questo momento affrontare in prima battuta il tema-problema del reclutamento dei docenti universitari, il cui futuro, in termini di ingresso e di carriera, è diventato incerto, oltre che sempre più complesso. È importante impegnarsi perché torni la figura del ricercatore a tempo indeterminato e perché nei concorsi di prima e seconda fascia i candidati concorrano per posti e posizioni reali e non per avere una idoneità a termine che non sempre può essere spesa come credenziale per lavorare in università o in altre istituzioni.

Pensa che le scienze sociali oggi godano di buona salute in Italia?

In Italia, come del resto in tanti altri paesi cosiddetti «sviluppati», le scienze sociali hanno perso la loro legittimazione. Si ritiene che nelle società ad elevata industrializzazione o postindustriali sia valido e utile (produttore di ricchezza) solo il sapere tecnico. Si tagliano i corsi in scienze umanistiche e sociali e nei corsi tecnici si eliminano le materie umanistiche. Non si finanzia la ricerca in tali settori. Si dimentica che il sapere umanistico e sociale è alla base del pensiero critico e della crescita della auto-consapevolezza dei cittadini e non si vuole dire che un tecnico «ignorante» è un ottimo esecutore.

Il sociologo del XXI secolo, quello che viene formato nelle università, dovrà essere più un «tecnico» o più un «intellettuale», un professionista oppure mantenere alta anche una funzione critica e di stimolo per la società? E quale delle due figure servirebbe di più alla società italiana?

Esiste un ricco bagaglio di conoscenze metodologiche e tecniche di ricerca che il sociologo possiede e che è giusto che venga messo al servizio della professione. Sociologi non ci si improvvisa e non diventa per caso. Tuttavia l’applicazione di una «tecnica» non è mai neutrale, per cui è importante che il sociologo conservi una sua funzione di analisi critica dei fenomeni sociali su cui è chiamato a riflettere e agire, per avere spazi di negoziazione con la committenza e una visione realistica della situazione in cui si muove. Credo che in questo momento, sia importante poter contare non solo su bravi tecnici ma anche su analisti seri e «realistici», che diano il senso di dove sta andando o non andando la nostra società.

Nell’ambito della grave crisi economica che ha colpito il nostro paese, spesso si è sentita la mancanza della voce della sociologia, intesa come comunità intellettuale, nel dibattito pubblico italiano. Michel Burawoy, presidente dell’«International Sociological Association», parla da anni di Sociologia Pubblica come modo di impostare il rapporto tra sociologia e società, in un momento in cui si ha sempre più bisogno di riflessione critica e sempre meno occasioni per costruirla. Cosa pensa di questo programma? Crede che sia adatto al contesto italiano?

Negli accesi dibattiti sul destino del nostro mondo spesso il palcoscenico dei sociologi è stato occupato da altri specialisti. Ma non dimentichiamoci che uno dei più significativi e profondi interpreti del disagio della società globale è il sociologo Zygmunt Bauman. Ma a parte questa considerazione, che può suonare come una consolazione, è vero che la comunità dei sociologi è poco intervenuta nel dibattito, forse perché in questi ultimi decenni alcuni temi cari alla sociologia classica quali le disuguaglianze, l’esclusione sociale, i diritti di cittadinanza sono stati poco frequentati dal punto di vista delle ricerche empiriche. Credo che su questi temi e tanti altri cruciali si possa tentare di impostare una Sociologia Pubblica, che voglia costruire un rapporto con la società centrato sulla riflessione critica.