«Delle persone si fa quel che si vuole. Basta che abbiano fame o paura e che si fornisca uno sbocco al loro odio, perché odiare dà loro l’illusione di esistere. Ieri gli ebrei. Oggi gli arabi. L’Algeria sta rimodellando il popolo francese intorno a un nemico comune circoscritto da un vocabolario assassino: levantino, mammalucco, bicot, crouille, raton…».

Bordeaux, fine anni Cinquanta, le ferite della Seconda guerra mondiale non si sono ancora chiuse mentre già l’ultimo capitolo della storia coloniale francese fa scorrere di nuovo il sangue in terra algerina. Un pugno di personaggi inseguiti dal proprio destino, le cui sorti individuali si legano in modo inestricabile alla tragedia collettiva che ha sconvolto il paese, si muovono in uno scenario sociale intessuto di bugie, complicità e compromessi inconfessabili che già preparano nuove drammatiche violenze. Un poliziotto che ha fatto carriera collaborando con i nazisti, un deportato sopravvissuto a stento ai lager e che fa ritorno a casa in cerca di risposte e di vendetta, un giovane i cui genitori sono invece stati inghiottiti dalla macchina di morte hitleriana e che si prepara a partire per combattere in Algeria, sono le tragiche comparse di una storia nera, in cui nessuno sembra poter conservare la propria innocenza o conoscere il riscatto.

Come in una lenta ma inesorabile discesa agli inferi, Hervé Le Corre ci guida lungo le pagine di Dopo la guerra, il suo ultimo romanzo appena pubblicato da e/o (pp. 515, euro 18), attraverso il rimosso della storia francese, dove i misteri e i fantasmi del passato non cessano di tormentare il presente.

«Dopo la guerra», un titolo che sembra descrivere un drammatico paradosso. Perché in realtà, tra la memoria negata delle vittime della Shoah, l’impunità di cui godettero molti collaborazionisti e il nuovo conflitto che montava in Algeria, la Francia degli anni Cinquanta non aveva ancora conosciuto alcun vero dopoguerra. Non è così?
In effetti, tra il 1939 e il 1962, il paese è stato praticamente sempre in guerra. Prima il Secondo conflitto mondiale e l’Occupazione nazista, quindi, molto rapidamente, la guerra d’Indocina, cui ha fatto seguito quella d’Algeria. Fino all’indipendenza algerina si può dire che il dopoguerra francese non sia stato altro che guerra e ancora guerra. Tutto questo ha avuto anche delle curiose implicazioni, talvolta drammatiche, vale a dire il fatto che alcuni degli ex combattenti del conflitto precedente hanno combattuto anche in quello successivo: così è potuto accadere che perfino alcuni di coloro che si erano impegnati tra le fila dei partigiani per liberare la Francia dai tedeschi, si siano poi ritrovati in Asia o nel Maghreb, nelle ultime guerre coloniali di Parigi.
Inoltre, non c’è stato un vero «dopo» anche per altri motivi: coloro che erano sopravvissuti ai campi della morte, tornando a casa scoprivano che chi li aveva denunciati o consegnati ai nazisti era spesso ancora al suo posto; non tutti i colpevoli avevano pagato per le proprie responsabilità. In questo modo, nessuno riusciva davvero a sbarazzarsi del conflitto e dei ricordi terribili che serbava ancora in sé.

Tra le fonti da cui ha tratto ispirazione per questo libro c’è la figura di un ex partigiano, Michel Slitinski, che negli anni Novanta sarà il portavoce delle parti civili nel processo contro Maurice Papon, segretario generale della prefettura della Gironda durante l’Occupazione e una delle figure più note del collaborazionismo locale. Come sono andate le cose?
Una quindicina d’anni fa invitammo Slitinski a intervenire nel liceo in cui insegnavo. Così, lui ci raccontò che un giorno, dopo la guerra, urtò contro una persona mentre scendeva da un autobus e, alzando lo sguardo, si accorse che si trattava di un poliziotto che aveva partecipato all’arresto di suo padre, poi consegnato ai nazisti e che morirà ad Auschwitz. Per lui, che stava cercando di ricominciare a vivere lasciandosi per quanto possibile il passato alle spalle, quella visione fu rivelatrice: molti responsabili di quei crimini erano ancora là, sicuri nei loro posti; erano passati indenni attraverso le maglie dell’epurazione. Di questo clima di impunità, proprio la figura Papon, che era stato tra i responsabili dei treni con cui i nazisti deportarono gli ebrei del sud della Francia verso i campi di sterminio, era divenuto un simbolo. Dopo il 1945 aveva continuato a fare carriera al ministero degli Interni, era prefetto di Parigi tra il 1961 e il 1962, quando centinaia di algerini furono uccisi dalle forze dell’ordine e ebbe luogo la strage di manifestanti al metrò di Charonne. Questo prima di entrare in politica nelle file dei gollisti. Quando finalmente il suo passato tornò ad emergere – per il processo bisognerà attendere la fine degli anni Novanta – la vicenda risvegliò la memoria sopita di Bordeaux. Fino a quel momento, c’era stata una rimozione generalizzata.

Nel suo libro si ha l’impressione che non ci sia un vero «dopoguerra»: i suoi personaggi non sembrano aver diritto né alla vendetta né alla redenzione…
Credo che abbia a che fare con il sentimento dell’assenza, del sopravvivere alla perdita di chi si ama. Non penso ci si possa consolare in alcun modo. Attraverso i miei romanzi cerco di elaborare queste mie inquietudini, mi permettono di «osservare le mie vertigini», come diceva Rimbaud.
Nello specifico, in Dopo la guerra nessuno dei personaggi arriva davvero a rimontare la china della propria dignità, ma allo stesso tempo anche chi cerca vendetta non riuscirà a compierla fino in fondo. E questo perché, nel caso dell’ex deportato che torna per rintracciare il poliziotto che lo tradì e lo consegnò ai tedeschi, si rende conto che consumare quell’atto lo porterebbe in basso, là dove si trova l’uomo che l’ha torturato e deportato. Vendicarsi in un modo ignobile gli farebbe perdere la propria umanità, lo renderebbe in qualche modo simile al suo aguzzino. Più in generale, nel libro, l’assenza di un dopoguerra si traduce nel fatto che molti personaggi restano bloccati in un’impasse, non riescono a riprendere in mano il proprio destino dopo ciò che hanno vissuto.

Scrivere della Collaborazione, non sembra troppo facile neppure nella Francia di oggi. Forse perché le vicende, oltre che di Maurice Papon, di Paul Touvier e Pierre Bousquet, altri collaborazionisti tristemente famosi, sono riemerse solo negli ultimi decenni e hanno rivelato come la cerchia dei loro protettori andasse dalla destra politica alla Chiesa fino all’ex presidente socialista Mitterand?
Si tratta di un soggetto ancora molto vivo e complicato da affrontare nel mio paese e di cui non è stato fino ad ora raccontato e scritto tutto. Bordeaux e la sua regione, dove sono nato e ho sempre vissuto, sono famose nel mondo per il loro vino, ma non tutti sanno che molti dei più noti commercianti del settore collaborarono attivamente con i tedeschi, facendo lucrosi affari mentre le persone venivano deportate e uccise, e si tratta ancora oggi di alcune delle più note e influenti famiglie della città. Da queste parti, la collaborazione rappresentò un esteso sistema di potere che metteva insieme uomini delle istituzioni locali, imprenditori e rappresentanti delle forze dell’ordine. Anche la Resistenza fu sbaragliata grazie all’azione di delatori e spie e la città non fu liberata dai partigiani, ma semplicemente abbandonata dalla truppe tedesche.

Secondo alcuni storici, tra cui Benjamin Stora, presidente del Museo dell’immigrazione di Parigi, l’odierno ritorno del razzismo nella società francese deriva anche dal fatto che la memoria nazionale non ha ancora fatto i conti con alcune delle pagine più buie della storia del paese: prima la Collaborazione e quindi la guerra d’Algeria. Cosa ne pensa?
Quello che posso dire è che si ha l’impressione che diverse fasi della storia francese siano state dominate dal bisogno di odiare qualcuno, di trovare un capro espiatorio al proprio malessere. Così, nel periodo tra le due guerre mondiali crebbe un antisemitismo che era molto diffuso, anche al di là delle etichette politiche, fino a coinvolgere diversi ambienti della sinistra: accanto al tradizionale repertorio razzista dell’estrema destra emerse allora anche una sorta di antisemitismo «di classe» che assimilava tout court gli ebrei ai ricchi, ai banchieri. Poi dopo il trauma provocato dalla Seconda guerra mondiale e dall’Olocausto, si ha quasi l’impressione che il paese abbia semplicemente cambiato nemico: è passato dagli ebrei agli arabi. Si assiste quasi naturalmente a un’evoluzione di questa sorta di odio pubblico, stavolta verso gli arabi che coinciderà con la guerra d’Algeria. E credo sia significativo che figure come quella di Papon riassumano in sé i due aspetti di questo razzismo francese, che lega un periodo all’altro: come funzionario di Vichy opererà contro gli ebrei, come rappresentante della République, contro gli arabi.

Il passato della Francia torna a tormentare il suo presente. Qualche mese fa il «Nouvel Observateur» titolava «Tornano gli anni Trenta». Disoccupazione di massa, razzismo, crescita dell’estrema destra e ora una nuova possibile guerra in Siria, annunciata solo pochi giorni fa dal presidente Hollande. C’è il rischio di un drammatico ritorno al futuro?
In realtà non credo che paragonare la situazione attuale a quella degli anni Trenta, al di là del risvegliare le coscienze dei più distratti, possa servire a granché a fronte delle minacce che pesano sul presente. All’epoca, ciò che si annunciava era la stagione delle dittature, Hitler, Mussolini, Franco e Salazar. Oggi, al contrario, il capitalismo non ha più bisogno di regimi politici di questo tipo per assicurare il proprio dominio, mentre la cornice democratica dei nostri paesi può essere mantenuta, anche se cresce il peso e l’influenza dell’estrema destra.
Ad esempio, in Francia, se da un lato il Front National utilizza temi sociali in apparenza sottratti al patrimonio della sinistra, in realtà le basi del suo programma restano legate a una visione classicamente liberalista in economia. In altri termini, il successo dell’estrema destra, come si può vedere in diversi paesi dove queste forze sono arrivate alle porte del potere, può ben combinarsi con il mantenimento dello status quo. La minaccia è di tipo diverso, ma non per questo il pericolo è meno grave.

 

SCHEDA

Classe 1950, nato e cresciuto a Bordeaux, insegnante di lettere nei licei della città, Hervé Le Corre si è costruito attraverso una decina di romanzi una fama di protagonista del nuovo romanzo noir francese. Arrivato tardi alla scrittura, la sua carriera può essere distinta in due fasi. La prima, negli anni Novanta, che si può iscrivere nella filiera del cosiddetto néo-polar, il romanzo giallo fortemente caratterizzato dall’impegno politico, inaugurato dalla figura di Jean-Patrick Manchette già negli anni Settanta. La seconda, che corrisponde all’ultimo decennio e di cui testimoniano i tre libri tradotti e pubblicati anche nel nostro paese – «Nero è il mio cuore» e «Il perfezionista», entrambi usciti per Piemme nel 2012, quest’ultimo in Francia ha venduto più di 50mila copie e ottenuto il prestigioso Grand Prix du roman noir français di Cognac e, ora «Dopo la guerra» (edizioni e/o), che ha vinto il Premio Le Point 2014 ed è già considerato dalla critica come il suo capolavoro -, dove ad una lucida analisi delle vicende storiche e politiche, ne «Il Perfezionista» il mondo operaio della Parigi della fine del XIX secolo, in «Dopo la guerra» i capitoli rimossi della Collaborazione e della Guerra d’Algeria, si aggiunge un’atmosfera cupa, nerissima e uno straordinario lavoro sulla lingua e il ritmo narrativo. Senza dubbio uno degli scrittori francesi di cui più si sentirà parlare e a lungo.