«Cambiavo gli spazi come fossero vestiti e spostavo i muri come se fossero Lego», così Laura Gallucci descriveva quella passione già infantile che l’avrebbe portata al lavoro di una vita: L’architettura necessaria (Quodlibet, pp. 176, euro 20) è il titolo sotto il quale Cristina Liquori e Irene De Guttry hanno deciso di raccogliere e descrivere i progetti (dal bar del museo Andersen, alla Tenuta Mastrojanni, passando per l’Abbattoir di Marsiglia e l’allestimento di Slittamenti per la Biennale di Venezia) di una tra le nostre migliori architette di interni, morta in un incidente in mare nel 2012.

Dove l’aggettivo «necessario» risponde non solo della sua passione ma anche della sua capacità di far emergere gli aspetti relativi alla forma, allo spazio, all’estetica, alla cura dei dettagli utili ai suoi clienti, ai suoi artigiani, ai suoi collaboratori. Della progettualità di Laura Gallucci, ma anche della grande perdita che ha rappresentato la sua prematura e improvvisa scomparsa per chi era abituato a confidare nelle sue doti di amica e di architetta, le autrici del libro ora propongono una radiografia attraverso la rilettura dei suoi scritti e il riepilogo dei suoi lavori, dal primo disegno fino all’opera finita. «Sono nata a Roma nella primavera del ’48, la mia famiglia voleva che facessi la maestra, ma amavo disegnare»: così si presentava Laura Gallucci ricordando come, nella sua infanzia, l’ambito ristretto della casa le fosse apparso una prigione e come, proprio per questo, avesse cominciato a fantasticare sulla possibilità di moltiplicare gli spazi, le percezioni tattili e i punti di vista. La sua passione nacque prestissimo, e trovò nel foglio e nella matita lo strumento essenziale per realizzare una fantasia originale e innovativa: i suoi disegni – lo si vede sfogliando il libro – sono precisi, essenziali, e – quando necessario – ricchi di humour.

Ma Laura Gallucci, giovane architetta negli anni ’70, visse quella stagione così speciale anche affacciandosi alla politica e, soprattutto, al femminismo, e in una declinazione politica avrebbe – da lì in avanti – sviluppato il tema dell’architettura, sia come insieme di suggerimenti ai policy maker, sia come rilettura del concetto di «cura», inteso nuovo modo di leggere la politica in termini di sviluppo e cura delle relazioni. «Nel mio lavoro di architetta ritengo che la parte dedicata alla cura rappresenti una percentuale molto elevata all’interno dell’intero processo che porta dalla nascita delle idee alla realizzazione di un progetto… devo immedesimarmi nella parte di chi abiterà una casa, che non solo rappresenterà il suo habitat ma anche la propria identità».

Materiali pubblici e privati provenienti dallo studio di Laura Gallucci sono stati dunque convogliati in questo bel libro, che ne ripercorre le regole puntuali impartite ai collaboratori, e il metodo proiettato tanto nei lavori per privati quanto in quelli per istituzioni pubbliche, che comportarono lo sviluppo di piani urbanistici e l’allestimento di mostre d’arte. Ma è nella ristrutturazione di case private che la creatività di Laura Gallucci si esprimeva più liberamente: «Era naturalmente minimalista – scrivono le autrici del libro – rifuggiva categoricamente da qualsiasi concessione al grazioso, al pittoresco, l’orientamento estetico less is more moralmente le corrispondeva».

Quel che è certo è che non inseguiva tendenze alla moda, pur essendo sempre pronta a cogliere l’occasione di sperimentare nuovi materiali o nuovi impieghi di materiali tradizionali. Come sanno tutti coloro che hanno lavorato con lei, e come mostra la documentazione dei suoi progetti raccolta nella Architettura necessaria, era dunque contemporaneamente affascinata dalle nuove tecnologie e dalla ingegnosità semplice dell’artigianato povero.