Bambine e bambini, donne e uomini di ogni età. Scappano da povertà, violenza e governi corrotti. Non hanno casa. Non hanno lavoro. Non hanno paura di Trump e delle sue minacce. Molti e molte di loro si affidano a dio.

Martha, 22 anni e una figlia, dice “siamo solo essere umani, non facciamo del male a nessuno. Sono costretta a migrare, e Trump deve capire che anche io e la mia famiglia dobbiamo avere un futuro, il futuro che povertà, violenza e i governi appoggiati dagli Usa ci hanno negato. Un giorno anche lui dovrà rispondere a dio per quel che fa”.

La prima delle ormai nove carovane migranti, che stanno camminando per il centro America – quattro dentro i confini del Messico – alla volta del confine con gli Usa, si è divisa a Città del Messico. In centinaia nella mattina di venerdì 9 novembre han preso il proprio zainetto e hanno proseguito il percorso verso lo stato di Queretaro per poi puntare su Tijuana, in migliaia invece si sono fermate un giorno in più nella capitale, e probabilmente ripartiranno oggi.

Non si capisce bene perché non sia stato rispettato il risultato dell’assemblea che nella sera di giovedì aveva decretato la ripartenza all’alba del giorno seguente nonostante l’Onu e il governo messicano avessero rifiutato di concedere i 150 autobus richiesti per proseguire in maniera sicura verso il nord.

Forse perché si è aperta una seconda pista per avere i tanto agognati autobus. Ma potrebbe anche essere stata una delle tattiche dissuasive che il governo Pena Nieto sta attuando per bloccare il flusso migratorio. Eriberto, viene da un paesino di confine tra Nicaragua e Honduras, e secondo lui che è uno dei “delegati” della caravana per la sua area di provenienza “da quando siamo arrivati in città provano a convincerci a fermarci qui. Ci fanno promesse, come hanno fatto in Veracruz, che poi non mantengono. È difficile, ma noi adesso andiamo sotto la sede dell’Onu e poi stasera capiamo come ripartire. Noi entreremo negli Stati Uniti”. Magdalena ha 24 anni, una figlia di due che tiene in braccio.

È honduregna, la maras le hanno rubato la casa e estorto alla famiglia il piccolo negozio che gestivano. “Siamo costretti a migrare. La violenza nel nostro paese è impressionante. Abbiamo anche un dittatura militare. Non ho paura di Trump, ma spesso mi chiedo cosa succederà al confine”.

Ramón Amieva Gálvez, sindaco/governatore di Città del Messico ha messo a disposizione della carovana il centro sportivo Magdalena Mixhuca. Oltre alle migliaia di centro americani si incrociano tra i tendoni e gli spalti del centro centinaia di messicani e di stranieri che portano vestiti e acqua. Ci sono centri dei diritti umani. Giornalisti. E chi distribuisce profilattici.

La stragrande maggioranza dei migranti e delle migranti è giovane, molti viaggiano da soli. Alcuni per raggiungere familiari. Altri per aprire la strada a chi non ha avuto il coraggio di partire. Ma poi ci sono persone come Ana, 36 anni, 5 figlie. La più grande 8, la più piccola sei mesi.

Sono tutte con lei. Il marito no, è rimasto a casa “perché se ci rimpatriano lungo il viaggio almeno al ritorno avremo una casa. Se fossimo partiti tutti la delinquenza o qualche sgherro del governo l’avrebbero fatta loro”. “Siamo distrutti e molte di noi si sono ammalate in questi 1.500 km di cammino” dice Luz. È madre di tre figli. Suo marito è stato ammazzato. “Non ci fermeremo. Entreremo negli Stati Uniti. Viaggiamo in gruppo per cercare di essere più sicuri e sicure. Vogliamo autobus per evitare che altre persone spariscano, o che siano investite, o picchiate come ci è capitato di vedere”.