Per ben due volte il Festival Torinodanza ha ospitato negli anni scorsi un titolo restato nei cuori e negli occhi degli spettatori: Kiss and Cry, poesia dal vivo tra danza e cinema firmata dalla coreografa Michèle Anne De Mey, artista associata del centro di Wallonie-Bruxelles Charleroi Danses e nome storico della danza contemporanea, e dal regista Jaco Van Dormael (suo il film Dio esiste e vive a Bruxelles), inventori complici di quella forma unica di movimento e visione che è la nanodanza. Duetti ballati dal vivo da mani carezzevoli intrecciate in minuscoli scenari, ingigantiti dalla magia del cinema che li proietta in diretta su un grande schermo senza nascondere all’occhio del pubblico il live della scena. Una macchina dei sogni di cui scrivemmo da Torino un anno fa. Un successo duraturo che ancora oggi porta lo spettacolo, passato pochi giorni fa anche a Bologna da Le Vie dei Festival, in tournée in tutta Europa.

Torinodanza non poteva perciò lasciarsi sfuggire il debutto italiano di Cold Blood, il nuovo lavoro della coppia De Mey/Van Dormael firmato insieme al collettivo di artisti di Kiss and Cry, direttore della fotografia con Van Dormael Julien Lambert, in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri, danzatori con De Mey, Grégory Grosjean e Gabriella Iacono.Questa volta la voce fuori campo del cantastorie (testi di Thomas Gunzig, autore anche dello scenario con De Mey e Van Dormael) accompagna lo spettatore ai confini della vita. «State per vivere sette morti imprevedibili, morti tragiche, sospese, violente, cliniche, erotiche, stupide…» Un viaggio onirico da cui, ci rassicura con ironia la voce mentre il nostro occhio curiosa nella penombra, torneremo vivi. La macchina teatrale/cinematografica ha un impianto simile a quello di Kiss and Cry. Come in una danza, le camere, guidate da Juliette Van Dormael (figlia dei due autori), seguono morbidamente quello che avviene live per ridarcelo come un regalo trasformato nello schermo. Nella penombra il collettivo di Kiss and Cry fa sì che la macchina sia pronta per il gioco.

In una foresta sullo schermo si schianta un aereo giocattolo, tutti si salvano meno un uomo che vediamo camminare stupito tra la nebbia. È il racconto della prima morte, quella stupida (l’uomo non ce la fa come gli altri perché è andato in bagno al momento dello schianto), a far partire la riflessione su quale sarà l’ultima immagine che i protagonisti delle sette storie, e per transfer anche ognuno di noi, avrà negli occhi alla fine. Sarà la pelle di seta di una donna, la camera dell’infanzia, l’odore dell’erba tagliata?

Sullo schermo la finzione ha l’anima della vita: un ballo di dita in un salone argenteo, il Bolero di Ravel danzato da mani che riprendono magistralmente la coreografia di Béjart, una pole dance a luci rosse con mani seduttive più del corpo, una passeggiata al freddo nella neve. La musica passa da Arvo Pärt a colonne sonore come Farewell, my Lovely e hit come Space Oddity di Bowie. Tutto è bellissimo. Noi ce ne andremo vivi dalla sala. Ma intanto, nel fluire delle storie, la voce ci suggerisce che la morte, dopo l’ultima personale immagine negli occhi, sarà solo assoluta trasparenza. E così questa danza a «sangue freddo», che racconta la morte tra cinema e teatro, con delicatezza fa rilucere la vita, con i suoi sfondi, le sue bellezze, i suoi imprevisti.