«Edoardo II lo scrissi perché volevo mettere in scena Marlowe e non mi bastava, annota Bertolt Brecht al momento di stendere il primo rendiconto della sua ancora giovane pratica teatrale. Siamo a metà degli anni venti del ’900, lo scrittore di drammi ha alle spalle Baal, Tamburi nella notte, il pluriennale work-in-progress di Nella giungla delle città; arriverà poi Un uomo è un uomo, a compendio di quel febbrile periodo. Ma Vita di Edoardo II di Inghilterra che il giovane Brecht (ha 26 anni) riscrive a partire da una nuova traduzione chiesta al romanziere Lion Feuchtwanger, meno levigata nel verso e con più ritmo, occupa un posto un po’ particolare nel suo apprendistato teatrale. È infatti il primo vero esperimento di regia, quel che va in scena ai Kammerspiele di Monaco dopo parecchi mesi di prove. E proprio quel lungo provarsi, l’esigenza di misurarsi con i problemi concreti della scena, modificano anche la tecnica di scrittura, la visione stessa del teatro, aprendo la strada alle successive elaborazioni teoriche.

Se si è insistito sull’elemento della giovinezza, è perché è questa la prima evidenza della bella messinscena realizzata da Andrea Baracco al Teatro Olimpico, per il festival diretto per il secondo anno da Eimuntas Nekrosius. Non è solo l’età anagrafica della compagnia, che pure conta e aiuta. O l’energia fisica che ne discende. Ma una sorta di sfrontatezza. Una anarchica vitalità molto prossima al Brecht di quegli anni, l’outsider che vuole scrivere le sue commedie in fretta, ma senza essere costretto a farlo. Più interessato a «un po’ di buon sport», sulla scena, che non a questioni formali. Il teatro non vale niente dove non ci sono appetiti, afferma in quel momento lo scrittore. E non c’è dubbio che Vita di Edoardo II sia commedia di forti passioni, umane prima ancora che ideologiche, con tutto quel di più di orrori e violenze di discendenza elisabettiana. La posta in gioco non è solo il potere.

Lo «stile agonistico» dei due avversari, verso cui Brecht indirizza l’attenzione degli spettatori di Nella giungla delle città, è anche qui il punto focale. Tanto più che nel corso di questa «cronaca» si produce un vero e proprio rovesciamento dei ruoli. Di cui la scena, con il suo tempo extra quotidiano, è il necessario reagente. Il dissoluto Edoardo dell’inizio, anarchico incoronato di stirpe caligoliana che appena sul trono mette scandalosamente in gioco la dignità regale pur di non allontanare da sé Gaveston, il suo amante che era stato esiliato, si muta progressivamente in una sorta di calderoniano «principe costante», trasforma cioè in eroica resistenza il rifiuto di abdicare, fino ad agognare il martirio di morire fra gli stenti. Il trono che si porta dietro come un viatico, alleggerito da un paio di palloncini, diventa sempre più faticoso da trascinare. Mentre in contro corrente va il percorso umano del suo avversario, il filosofo Roger Mortimer, che ha imprigionato il re inviso ai Pari del regno quanto alla Chiesa e fatto della regina Anna la sua amante.

La centralità del tempo come agente di trasformazione, di cui il tempo scenico offre esperienza, è subito visibile anche figurativamente. Se Brecht scandisce la sua cronaca con una cronologia immaginaria, qui campeggia sul palcoscenico dell’Olimpico il quadrante circolare di un grande orologio, unico elemento scenografico che la perfetta architettura palladiana può sopportare. Di cui gli interpreti sistemano all’occorrenza le lancette, quasi a imporre la propria attiva presenza a quel tic tac che risuona anche nella colonna sonora.

Baracco si applica a Brecht con lo stesso spirito con cui lo scrittore di drammi aveva affrontato Christopher Marlowe. Condensa la vicenda attorno al suo nucleo, riduce il numero dei personaggi a misura dei sei attori della compagnia (sono Ersilia Lombardo, Gabriele Portoghese, Lucas Waldem Zanforlini, Andrea Trapani, Luigi Di Pietro e Mauro Conte), che assumono così un ruolo ancor più paradigmatico. Con un gioco scenico che per certi versi ricorda proprio Nekrosius, costruisce una propria drammaturgia sugli oggetti che questi si portano dietro come un altro costume, il solo anzi che indossano.

Edoardo stretto a quella sedia metallica che funge da trono. Mortimer con una pila di libri che gli ricorda i suoi trascorsi di intellettuale. La regina Anna sempre con la valigia in mano, pronta a partire, anche lei in via di metamorfosi da vittima in vendicativa carnefice. E poi ombrelli, un enorme fazzoletto di carta che si fa lettera testamentaria, il funebre bozzolo di plastica che come un unico sudario avvolge i protagonisti alla fine, là dove le opposte polarità si riuniscono, mentre la voce di Modugno canta i versi di Pasolini, tutto il mio folle amore lo soffia il vento. E il vento ha cambiato direzione.

Dio sta con chi ha vinto, dice a un certo il Priore dando voce alla malleabilità della Chiesa. Nel 1924 di Bertolt Brecht il nazismo non ha ancora vinto. L’improvvisato tentativo di colpo di stato delle camicie brune non è andato al di là di una birreria di Monaco. Ma tira un brutto vento nella città bavarese, e Brecht e tanti altri prenderanno la strada di Berlino. La vita di Edoardo ci ricorda anche questo.