Il confinamento ha provocato conseguenze importanti per tutti e ha reso ancora più lampanti le condizioni di crescente precarietà del lavoro e della vita delle persone, in condizioni diseguali, e diseguali sono le conseguenze materiali e immateriali sulla vita e sul lavoro.
Ho vissuto questi mesi in una condizione relativamente privilegiata: pur non essendo dipendente, svolgo un’attività consulenziale che non richiede necessariamente la presenza. Lavoro con la PA nel campo della politica di coesione, cerco di aiutare amministrazioni centrali e regionali a ideare, programmare, attuare le politiche di sviluppo orientate ai risultati, realizzando una spesa accorta e tempestiva delle risorse pubbliche.
Ho fatto un numero smisurato di riunioni su tante piattaforme diverse, e anche dei colloqui per prendere nuovi lavori. Perché chi fa il mio lavoro deve continuamente controllare se escono avvisi pubblici, mandare il curriculum, aggiornarsi nelle materie abituali e contigue, farsi valutare, sostenere colloqui, farsi valutare di nuovo, consultare graduatorie.
Molti hanno vissuto il lockdown in case piccole, con connessioni web scadenti, e la necessità di dividersi gli spazi con i figli che dovevano seguire le lezioni, fino alla fine della scuola. E poi lo smart working poco smart e molto working, spesso senza diritto di disconnessione, e senza soluzione di continuità fra giorni feriali e festivi, aggravato, soprattutto per le donne, dal lavoro da fare in casa, cura e riproduzione, senza neanche quelle pause forzate del tempo casa-lavoro-casa che magari ti consentono di fare quella telefonata, o di leggere qualche pagina, sia pure su uno schermo.
Molti hanno perso il lavoro perché lavoravano nei negozi, nei ristoranti, nei bar, nelle palestre, a fare le pulizie; le chiusure delle attività hanno riguardato soprattutto le imprese di minori dimensioni: nella fase 1 si è fermato il 48,7% delle imprese fra 3 e 9 addetti. E la quota femminile fra le persone inattive è ancora cresciuta, perché le donne sono generalmente impiegate in settori più interessati dal lockdown e dalla crisi che ha innescato. Ma la crisi Covid-19 si innesta su una crisi strutturale ormai di lunga durata, le condizioni del mercato del lavoro erano già notevolmente precarie e le disuguaglianze crescono.
Nel decreto liquidità prima e poi nel decreto rilancio il governo ha cercato di far fronte alla perdita di reddito introducendo, se non mi sono persa qualche pezzo, diciannove forme di ammortizzatori sociali diversificate per le diverse categorie.
Quando si è reso evidente che molte persone restavano fuori è stato introdotto il Reddito di Emergenza, come misura residuale se nessuno dei membri del nucleo richiedente percepisce indennità Covid-19, prestazioni pensionistiche, redditi da lavoro dipendente, reddito o pensione di cittadinanza. Nel caso del REM viene richiesta una prova dei mezzi con l’ISEE, non prevista per le varie indennità, particolarmente odiosa perché collegata al contributo più basso e per i più deboli. Il beneficio va infatti dai 400 euro per un nucleo costituito da un solo adulto a 840 euro per nuclei costituiti da tre adulti e due minorenni di cui un componente è disabile grave, deve essere richiesto all’Inps entro il 31 luglio e sarà erogato per sole due mensilità.
Ciascuna di queste misure è transitoria e ha necessitato l’allestimento di diverse e complesse procedure di valutazione, attuazione, gestione e monitoraggio, con i conseguenti ritardi che si stanno ancora verificando, accentuando, se possibile, la frammentarietà degli interventi a tutela del reddito e la segregazione delle «categorie» sociali interessate.
– Ho ritirato i 600 euro, tu?
– A me non sono ancora arrivati…
– Hai fatto la domanda in ritardo?
– No, io sono fra gli iscritti al FPLS…
– Ah, io professionista con partita Iva
– …però insegno pure posturale, e faccio traduzioni… meglio non dirglielo
(dialogo fra amiche).
Si sarebbe potuto semplificare, come è stato chiesto a gran voce, estendendo il reddito di cittadinanza in senso più universalistico e meno condizionato, per includere tutta la popolazione e ciascun individuo a prescindere dalla appartenenza alla categoria del lavoro o non lavoro.
Attenzione, però, che la frammentazione va evitata anche dall’altra parte. Le campagne nate in questi mesi per un reddito di quarantena, quella per il reddito di cura, quella per il reddito di autodeterminazione, rischiano di trasformare sacrosante rivendicazioni e piattaforme che aderiscono alle esigenze di settori o soggetti diversificati in differenze nominalistiche che accrescono la confusione e spaccano il fronte.
Si deve semplificare e comporre la pretesa di un reddito per tutti: «Chiunque non disponga di risorse sufficienti ha diritto a un adeguato reddito minimo che garantisca una vita dignitosa in tutte le fasi della vita e l’accesso a beni e servizi». (Pilastro sociale europeo del novembre 2017, art. 14), per il «diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana» (Raccomandazione del Consiglio, 24 giugno 1992), passando per il «diritto ad avere assicurata un’esistenza libera e dignitosa» di Stefano Rodotà, e per «una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete» che Bergoglio auspica nella lettera ai movimenti popolari.
Bisogna cambiare la prospettiva. L’Unione Europea deve cambiare il Patto di stabilità, ora sospeso, sostituendo gli obiettivi per i parametri del deficit e del debito con obiettivi più giusti per abbattere disoccupazione e povertà.
E bisogna pure stipulare un Patto di stabilità sociale fra lo Stato e le persone, con un reddito di base universale e incondizionato, un regolare pagamento in contanti per ogni individuo. Perché ogni individuo ha il diritto alla stabilità della vita anche in fasi di disoccupazione, crisi economica, pandemia, altre problematiche personali o sociali che mettano a rischio la conduzione di una vita libera e dignitosa.
Si tratta, secondo me, di una fra le «riforme e investimenti volti a rinvigorire il potenziale di crescita, a rafforzare la coesione tra gli Stati membri e ad aumentarne la resilienza» che il governo deve inserire nel Piano Nazionale di Riforma da presentare in autunno insieme alla Nota di aggiornamento del DEF per poter accedere alle risorse del Recovery fund, quel Next Generation EU, di cui si è cominciato a discutere sul tavolo del Consiglio europeo.
Si potrebbe fare, visto che «L’obiettivo generale del Dispositivo per la ripresa e la resilienza è promuovere la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione migliorando la resilienza e la capacità di aggiustamento degli Stati membri, attenuando l’impatto sociale ed economico della crisi e sostenendo le transizioni verde e digitale, contribuendo in tal modo a ripristinare il potenziale di crescita delle economie dell’Unione, a incentivare la creazione di posti di lavoro nel periodo successivo alla crisi della Covid-19 e a promuovere una crescita sostenibile». E visto che fra le raccomandazioni UE di primavera, c’è «fornire redditi sostitutivi e un accesso al sistema di protezione sociale adeguati, in particolare per i lavoratori atipici».
Più nello specifico, immagino alcune misure che andrebbero a comporre il finanziamento del sostegno al reddito, partendo dall’intervento della BCE, che potrebbe effettuare un pagamento mensile incondizionato per ogni cittadino dell’UE (sulla falsariga della proposta dell’eurodividendo di Van Parijs). Per individui ad alto reddito o ricchi, questi fondi potrebbero essere successivamente trasferiti e compensati nei bilanci statali attraverso il sistema fiscale.
L’assegno incondizionato della BCE potrebbe essere integrato da altre misure finalizzate al sostegno del reddito e all’accesso a servizi.
La Commissione propone anche il programma REACT-EU con 55 miliardi di finanziamenti aggiuntivi disponibili da subito. Con il Fondo di aiuti europei agli indigenti (FEAD) si potrà fornire cibo e assistenza materiale di base anche tramite voucher, il Fondo sociale europeo (FSE) può sostenere l’occupazione, e finanziare regimi di riduzione dell’orario lavorativo senza l’obbligo di associarli a misure attive, aiuti ai lavoratori autonomi e alla creazione di posti di lavoro, e anche integrare lo strumento di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (SURE).
Il FSE+ deve anche destinare almeno il 5% delle risorse «al sostegno di azioni mirate e di riforme strutturali volte a contrastare la povertà infantile».
Nel decreto rilancio sono previste detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica e antisismica degli edifici nella forma di crediti d’imposta, anche cedibili ad altri soggetti, o di sconti sul corrispettivo (artt. 121 e 122). L’estensione di un’iniziativa del genere, per esempio al pagamento delle utenze, o ad altri beni o servizi compatibili con un modello di sviluppo verde e digitale (servizi di banda larga, dispositivi, trasporti pubblici, carburanti, servizi di cura per la conciliazione…), potrebbe essere un modo di finanziare un’altra quota di reddito di base, senza erogazioni monetarie e indebitamento pubblico.
Poi tutti i possibili aiuti transitori devono diventare una (buona) riforma strutturale.
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Paola Boffo, economista, si occupa di politiche di sviluppo e coesione e di politiche europee, a supporto delle pubbliche amministrazioni. È impegnata nelle politiche per il lavoro, la lotta contro la povertà e l’inclusione sociale ed economica, ha coordinato una rete nazionale per il reddito minimo.