I discorsi sullo stato dell’Unione, di qualsiasi Unione, sono solitamente improntati alla difficoltà delle sfide che si intendono affrontare e all’ottimistica valutazione della certezza di venirne a capo. Non fa eccezione a queste caratteristiche il discorso, pur apprezzabile e non scontato, tenuto ieri di fronte al Parlamento europeo dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Più decisa e politica che in passato l’enfasi posta sulla dimensione comune, complice la natura intrinsecamente “sconfinata” dei grandi temi posti in agenda, in primo luogo quello della salute del pianeta e dei suoi abitanti. Il nuovo contesto creato dall’esplosione della pandemia e la risposta sopraffatta e frammentaria che ha caratterizzato i paesi europei nella prima fase dell’epidemia non possono essere messi tra parentesi e incombono inevitabilmente su ogni futura formulazione delle politiche europee. Tanto è vero che le destre nazionaliste si sono sforzate fin da subito di minimizzarne la portata e di aggredire da ogni lato le politiche sanitarie dei governi. Con qualche successo di piazza, soprattutto in Germania, ma con una generale perdita di consensi.

Del resto l’insieme degli imponenti strumenti finanziari messi in campo (e in comune) per fronteggiare la crisi economica continentale (che questa volta fa meno differenza tra reprobi e virtuosi) ha contribuito ad abbattere diversi tabù e mostrato i caratteri più ideologici che pragmatici del catechismo neoliberale adottato per decenni dai vertici europei. Cosicché lo “stato dell’Unione” si presentava in ogni modo sotto una luce alquanto diversa dal passato anche recente e di fronte alla necessità di una correzione di rotta. Il che non significa naturalmente che la gestione concreta di queste risorse non darà luogo a fratture e aspri conflitti.

Sul tema delle migrazioni, al di là dal ribadirne la dimensione continentale e l’obbligo di trovare risposte comuni e solidali, la prudenza resta d’obbligo, si invitano i governi a uno spirito di “compromesso” e quando si parla di accoglienza non si manca mai di affiancarle il tema dei rimpatri. Un passo ulteriore, tutt’altro che irrilevante, lo si può tuttavia ravvisare nella promessa, formulata dalla presidente, di cancellare gli accordi di Dublino, obiettivo non privo di ostacoli e che comunque non porrebbe fine alle politiche di respingimento dei singoli stati. Ma in questa promessa si staglia in controluce una questione di lunga durata ma di natura decisiva. Il fatto cioè che il rapido mutare delle situazioni e del contesto planetario rende sempre più impropria l’immutabilità dei trattati. Cominciare a porsi in questa prospettiva di riforma è uno degli effetti più importanti della crisi indotta dalla pandemia, cui già Angela Merkel aveva accennato alcuni mesi fa, e che tra le righe del discorso di Ursula von der Leyen torna ad affacciarsi. Appare sempre più chiaro che il futuro dell’Unione si gioca a lungo termine su questo terreno.

Se i temi del rilancio, la riconversione ecologica, la digitalizzazione, la sanità erano già da tempo in agenda, la prima presidente del Parlamento europeo ha saputo imprimere al suo intervento una tonalità più empatica e meno affetta dalla freddezza efficientista del passato, più aperta all’accoglimento delle domande sociali (salario minimo comune) e più attenta alle zone di sofferenza. Insistendo, fra l’altro, su due punti dolenti: le politiche omofobe e discriminatorie praticate da alcuni governi dell’est europeo e l’onda montante del razzismo e della xenofobia. Lo ha fatto non solo come doveroso richiamo ai valori, ma come volontà di intraprendere politiche attive di contrasto a questi fenomeni. Non ci si può tuttavia nascondere il fatto che quanto al rispetto dei diritti civili e delle libertà democratiche, l’Unione resta ampiamente ostaggio delle sovranità nazionali. E gli strumenti di pressione esistenti impiegati raramente e malvolentieri. Un atteggiamento che le parole della Presidente sembrano una buona volta voler cambiare.