Mónica Ojeda, ecuadoriana poco più che trentenne ormai trapiantata a Madrid, è un nome nuovo per i lettori italiani ma già notissimo a quelli di lingua spagnola, e fa parte della straordinaria fioritura di giovani scrittrici latinoamericane che, pur con voci e registri differenti, hanno scelto di collocarsi nell’ambito del perturbante e del bizzarro, interrogando la violenza di un intero continente e le inquietudini della contemporaneità, senza però dimenticare le scritture femminili che le hanno precedute e che oggi vengono finalmente rivalutate.
Autrice di racconti, romanzi e poesie, Ojeda arriva per la prima volta in Italia grazie all’editore Alessandro Polidoro, che per inserirla in una collana già ricca di ottimi autori latinoamericani ha scelto la sua opera più importante e matura (Mandibula, traduzione di Alessandro Bonatto, pp. 285, euro18), in cui la giovane scrittrice dimostra di sapersi muovere con notevole maestria tra realismo e delirio, allestendo un superbo esercizio di stile grazie a molte e diverse tecniche narrative (dialoghi che fanno pensare a un fantasmatico copione teatrale, un saggio in forma epistolare, incroci continui tra passato e presente) e a una prosa ricca di immagini, dettagli lirici e variazioni di tono, che crea una sorta di mosaico instabile composto da più voci narranti.
Il romanzo viene considerato da alcuni un esempio di «gotico andino», definizione forse più adatta a Las voladoras, la più recente (e splendida) opera di Ojeda, in cui irrompono l’orrore soprannaturale e il fantastico, del tutto assenti in Mandibula se non come fabulazione elaborata dalle protagoniste.

E IN REALTÀ È IMPOSSIBILE inscrivere il romanzo in un genere preciso, nonostante una lunga serie di epigrafi rimandi a classici del terrore come Poe, Lovecraft e Mary Shelley, a poeti come il folle e oscuro Leopoldo María Panero, a filosofi e psicoanalisti (Lacan, Bataille, Kristeva), che il testo mescola a infinite citazioni di serie televisive, videogiochi, film e fenomeni del mondo virtuale come le creepypasta, racconti del terrore nati da leggende urbane, invenzioni, informazioni incontrollabili e incontrollate che confluiscono nelle storie virali diffuse in rete e travasate in una quantità di formati, dai video al fotoshop, alle canzoni, al fan art.
Potremmo forse definire Mandibula, se proprio ce ne fosse bisogno, un tenebroso romanzo di formazione, quasi un thriller metafisico carico di suspense, che sin dalle prime righe costringe il lettore a interrogarsi sul motivo per cui una ragazzina stordita e legata apre gli occhi in una capanna nella foresta e scopre che a sequestrarla è stata la sua mite insegnante di letteratura, sbeffeggiata per mesi dall’intera classe. Da una fitta trama intertestuale, gestita con grande naturalezza, emergono i temi cari a Ojeda: la famiglia come luogo del trauma («A volte penso che la famiglia sia il mostro sotto il letto, mentre noi siamo il mostro che si nasconde sotto il lenzuolo», ha detto l’autrice in un’intervista), l’esplorazione del corpo, il bisogno o il timore di rispecchiarsi in un doppio, il confine tra piacere, dolore e violenza, l’inconoscibile ma anche ciò che si conosce e non si può controllare.

TUTTO QUESTO VIENE FILTRATO attraverso la vita di un gruppo di quindicenni che appartengono alle migliori famiglie di Guayaquil e frequentano un costoso istituto femminile dell’Opus Dei, dove chi stabilisce tacitamente le regole sono le alunne e i loro potenti genitori, mentre il corpo insegnante è tenuto a trattare con riguardo la propria distinta «clientela», come scoprirà Miss Clara, nuova insegnante reduce da un’esperienza che l’ha sprofondata in un’ansia inguaribile (quando insegnava in una scuola pubblica, due alunne quattordicenni l’avevano torturata per un’intera notte, dopo essere penetrate in casa sua per rubare i compiti degli esami).

SE LA SCUOLA È IL LUOGO in cui devono essere modellate in una forma accettabilmente adulta, preparandosi a diventare mogli impeccabili, madri perfette e utili membri della società, le adolescenti ricevono però un’educazione parallela in due autentici altrove: gli angoli più weird di internet e un rudere invaso da serpenti e vegetazione tropicale che sembra uscito da un videogioco, dove si sottopongono a prove temerarie, raccontano storie del terrore e invocano il Dio Bianco, nato dall’immaginazione e dall’intelligenza implacabile di Annelise, leader indiscussa e simbioticamente legata alla sua amica Fernanda.
Su questo fondale, cui a tratti se ne sovrappongono altri che provengono da incubi e memorie, Ojeda disegna un mondo interamente femminile (i rari personaggi maschili sono condannati all’irrilevanza o al mutismo) e indaga sulla natura sfuggente, metamorfica e «pericolosa» dell’adolescenza, ma anche su quel che di sinistro si cela nel legame tra madri e figlie.

NON È GRATUITA, insomma, la citazione iniziale di Lacan: «Un grande coccodrillo che ci tiene nella sua bocca, questa è la madre», allusione al fatto che il coccodrillo femmina custodisce la prole tra le fauci, per tenerla al sicuro. Ma chi protegge può anche divorare, e in questa chiave il duo madre-figlia attraversa tutto il libro e si irradia sulle relazioni di potere tra donne. Se Clara si identifica con una genitrice amata di un amore assoluto e non corrisposto, fino a imitarla in tutto e a cercare di fondersi con lei, Fernanda ha un rapporto malato con la madre, che la sospetta silenziosamente di aver provocato la morte del fratellino, mentre Annelise non ha mai conosciuto l’affetto di chi l’ha partorita solo per adempiere a un dovere sociale.

IL ROMANZO DELINEA in modo inevitabilmente inquietante la trasformazione da bambina in donna, la rabbia di chi deve aderire a una femminilità le cui regole vengono stabilite altrove, la paura legata alle trasformazioni del corpo e al mutare improvviso dello sguardo maschile. E alla paura si risponde con la paura: le adolescenti giocano a essere cattive o corrono rischi insensati, sadismo e autolesionismo testimoniano l’urgenza di opporsi in tutto ai desideri degli adulti. Spaventando gli altri si acquista potere, spaventando se stesse ci si mette alla prova, si sperimentano i propri limiti (non a caso Annelise, che non ne ha, è la leader del gruppo), si crea una nuova realtà o addirittura una nuova cosmogonia.
Per questo le ragazzine accettano, tra i tanti giochi pericolosi, il culto che Annelise descrive minutamente nel suo saggio-lettera indirizzato a Miss Clara (un escamotage narrativo riuscitissimo, che aggiunge al romanzo una affascinante dimensione teorica), in cui l’orrore cosmico di Lovercraft, inteso come presenza mostruosa, eterna e inavvertita, si trasforma nel Dio Bianco. Bianco come Moby Dick, come l’Antartide di «Gordon Pym», come il teschio, le zanne e il sudario, un colore indefinito, misterioso, contaminabile come l’adolescenza: un vuoto da cui può emergere qualsiasi cosa.

ANNELISE, che della paura ha fatto uno strumento di dominio e manipolazione, ha individuato il punto debole di Miss Clara nel suo terrore dell’«età bianca» e dei corpi adolescenti, e facendo leva su quel trauma la spinge a trasformarsi in strega o Erinni, che in una casa nel bosco uscita dal fiabesco più nero impartirà una «lezione» estrema all’allieva. Fernanda espierà così la colpa di essersi sottratta, improvvisamente turbata, alla volontà di Annelise, alla loro sorellanza passionale ed esclusiva di «migliori amiche», a un’intimità dei corpi in cui piacere e dolore erano ormai la stessa cosa.
In uno scenario di tale violenza, Ojeda evita ogni manicheismo (i carnefici sono a loro volta vittime, e viceversa) e soprattutto affronta, dalle profondità di un romanzo che propone non solo storie ma significati, un tema disturbante e ineludibile che lei stessa chiama «il femminile mostruoso», rifacendosi a una tradizione che dalla letteratura e dal cinema risale alla fiaba e al mito, là dove chi non vuole, non sa o non può rientrare nella cornice della femminilità patriarcale non ha altra scelta, a volte, che diventare mostro.