Potrebbe apparire superfluo dichiarare le ragioni dell’omaggio che gli Incontri Internazionali d’Arte e il Premio Malaparte, da essi fondato e animato ormai da anni, e con loro l’isola di Capri, hanno deciso di promuovere in occasione dei cinquanta anni dalla realizzazione de Le Mépris di Jean-Luc Godard, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia.

Capita infatti a Godard, seppure in vita, ciò che di solito accade a quei talenti, eccezionali quanto misconosciuti, destinati a raggiungere un generale consenso critico e una notorietà di massa solo post mortem. Così l’autore, che nel corso degli anni Sessanta e Settanta veniva spesso maltrattato dalla critica ufficiale, soprattutto nostrana – per non parlare di quegli avventurosi produttori che ne manipolavano montaggio, titoli e versioni casalinghe –, senza soluzione e senza troppo clamore, da icona esclusiva della cinefilia internazionale e degli addetti ai lavori diventa oggetto di una celebrazione unanime e di una popolarità diffusa, dalle Università alla Rete (…).

La riproposta di una delle sue opere fondamentali, la versione originale de Le Mépris , irriconoscibile in quella italiana, accompagnata da una tavola rotonda e da un petit livre de chevet, è dunque soprattutto l’occasione per restituire virulenza e attualità a Godard, cineasta e critico militante di un’avanguardia cinematografica che lo ha visto protagonista, insieme ad Alain Resnais, dell’esplosione e della rifondazione del cinema moderno. Una nouvelle vague la cui onda lunga ha tracimato gran parte di tutto il cinema contemporaneo e ancora non ci appare aver esaurito la sua produttività storica.

Naufragi della modernità. Nessuno meglio dello stesso Godard ha definito con Le Mépris l’essenza del personaggio moderno, quello che nasce con Hiroshima mon amour e A bout de souffle; nessuno al cinema lo ha meglio inquadrato teoricamente: un modello di antieroe che, seppur spesso svuotato di testa e carne, è divenuto negli anni il protagonista dell’attuale immaginario cinematografico. Un uomo di Laramie cacciato dall’Eden classico e approdato nel labirinto irrisolvibile di Marienbad. Pastore errante per i corridoi di una palazzina di Vigna Clara, il quartiere romano dei nuovi ricchi, vagheggiante stelle precluse allo sguardo dallo skyline di una romanità eterna già in avanzato stato di devastazione. Stelle reificate dall’assenza di quello sguardo, ché gli uomini, oltre agli dei, inventarono un tempo anche le stelle. Quell’universo siderale che «si accorda ai nostri desideri», come diceva Bazin, è appannaggio infatti solo del Padre – Fritz Lang, che rinnova, nello sguardo del figlio, l’armonia irripetibile di un cinema capace di cogliere nel riflesso della realtà la verità ultima delle cose.

Resta poi a Godard tutto il peso di indagare con la sua mdp la necessità della menzogna in cui Paul e Francesca, Camille e Prokosch sono costretti a vivere o a morire: non una scelta, ma il vagare obbligato di chi anela all’essere e trova solo una precaria, dolorosa e lacerante apparenza. Al di qua, c’è solo l’egotismo cieco di Prokosch – quegli occhiali da sole… – o, all’estremo, il disprezzo ferino di Camille. Al di qua appunto, nel nulla della morte. Al di là, l’abbiamo detto, l’Itaca irraggiungibile che solo Fritz Lang può filmare. Tutti noi, come Paul infine, ci agitiamo mascherati con un cappello in testa per una casa/nave che non salperà mai. Promessa costantemente disattesa di un’identità irrealizzabile.

La crisi della coppia, tema caro alla narrativa moraviana e cuore del romanzo, diviene nel film metonimia narrativa e metafora tematica di ben altro. Film metafisico, che presuppone l’Altro mettendolo in scena nell’Odissea langhiana che, ahimé, non vedremo mai, denota l’approccio politico e filosofico dell’autore, peraltro sempre più evidente, lungo gli anni, nella sua opera. Lontano dal romanticismo esistenzialista dell’Antonioni coevo, e dalla poesia disincantata e sardonica dell’immaginario felliniano che si va affermando, Le Mépris ci racconta l’eclisse del soggetto già in quel lontano 1963.

Eppure, malgrado Godard scelga di citare Hawks, Hitchcock, Minnelli e Rossellini, il film non può non evocare il fuori campo della Roma «cinematografara» cinica e gaudente di quegli anni, così come la crisi strisciante, politica, culturale ed esistenziale, della borghesia intellettuale che nobilitava la mondanità caprese. Uno sfondo che può essere facilmente colto nei materiali fotografici e documentaristici che presentiamo in questa occasione. Paul e il suo cappello potrebbero benissimo comparire fra Morante e Moravia in una di quelle foto di gruppo di villa Malaparte, e Prokosch trascorrere con la sua spyder nella rutilante notte brava di via Veneto immortalato dai paparazzi. Materiali però da comédie humaine, da quel geniale calderone della commedia italiana, e/o dal moderno melodramma: generi in cui la consolazione del riso o del pianto stemperano ugualmente la severità della visione.

Le Mépris è invece una tragedia moderna, in cui la novità audace del linguaggio e della narrazione, l’attualità del tema si confrontano incessantemente con la struttura classica, da Racine ai greci. Del resto, è «tragicamente» che Paul ama Camille. Ogni relazione sessuale è impossibile, e il godimento è connotato dal suo eterno scacco. È dei pezzi di un corpo che Paul e Camille – un braccio, un ginocchio… – sono ridotti a godere. Ancora una volta, la mirabile armonia di Eros e Bellezza, l’integrità di quel corpo, è racchiusa irrimediabilmente nella perfezione della scultura classica. Anche una moderna tragedia si muove dunque nell’ambito dell’irreversibilità, e anche la sua finale catarsi molto ha a che fare con gli dei, e assai poco con gli uomini. Pur se Godard, laicamente, nulla ci dice di che sostanza saranno i nuovi dei e i nuovi miti che i moderni inventeranno per animare il nulla.

A questo punto, appare quanto mai comprensibile la brutale manipolazione che Carlo Ponti – produttore peraltro coinvolto in altre occasioni nel cosiddetto cinema d’autore – operò sulla versione italiana: più che un film non «commerciale», deve aver intuito subito che si trattava di un’opera del tutto estranea e irriducibile alla scena culturale italiana, alta o bassa che fosse, caratterizzata, tranne rare e misconosciute eccezioni, per linguaggio e contenuti, da un’estetica del compromesso che, anche genialmente a volte, e spesso inconsapevolmente, si basa tuttora su un antico patto consolatorio con il consumatore, lettore o spettatore che sia. La spietatezza intellettuale del «tragico» Godard deve essergli immediatamente apparsa indigeribile persino per i raffinati palati dell’intellighenzia nostrana, come puntualmente è accaduto, tanto che anche il suo accanito massacro – più avanti analizzato in queste stesse pagine – non riesce del tutto a offuscare la limpidezza del disegno godardiano. Malgrado la Bardot, malgrado Capri – deve essersi dannato Ponti (…)