A ospitare la sede principale della 16a Biennale di Istanbul 2019 è un grande edificio semitrasparente, dalle cui vetrate lo sguardo si apre sul Bosforo e sul Mar di Marmara, sul brulichio di barchini e di navi imponenti che disegnano improbabili incroci; l’occhio si muove dalla Torre di Galata fino a intravedere Santa Sofia e il versante asiatico, appena interrotto da imponenti gru che manovrano sopra solidi scheletri di cemento armato e sullo scavo di fondazione di un edificio che sarà. Ogni tanto si vede anche qualche operaio arrampicato sui tetti e sui ponteggi, e verrebbe voglia di fargli un cenno di saluto. È la città che si rinnova e amplia la sua cubatura.

FUORI È LA LUCE e qualcosa che assomiglia al caos. Dentro invece è un reticolo ordinato ma scuro di corridoi sospesi che conducono a decine di sale espositive, una per ogni artista, come un labirinto nel quale il filo di Arianna è dato di default. Il palazzo dentro e fuori sembra un po’ il simbolo della nostra Terra e della nostra era che si chiama Antropocene, che sono anche i temi della Biennale, volta alla ricerca di un Settimo Continente, quello di plastica che, futura Atlantide, galleggia negli oceani; ma anche, per contrappasso, alla ricerca di quel continente della cultura che si auspicherebbe un po’ più eco-compatibile e sostenibile.

LA CHIAMATA ALLE ARMI era semplice e chiara: come si pone l’arte di fronte a quel fenomeno, di cui nel Neozoico non ci sono precedenti tracce (cioè negli ultimi 65 milioni di anni di interazione tra vita animale ed ere geologiche non era mai successo), per cui una specie nella sua evoluzione sta seriamente creando i presupposti della propria estinzione? Après moi le déluge! sarebbe la prima risposta, un tantino disfattista e ingenuamente di autodifesa. Ma si è tutti in ballo, tanto più che questo trono, su cui l’umanità cerca sempre di sedersi, è davvero vacante: qualche batterio resistente a ogni catastrofe ci sarà di sicuro e non sarà un bell’incontro!
Gli artisti selezionati ce la mettono tutta: ricreano ambienti pre e post umani, sia con tracce di storia sia senza; documentano le azioni degli umani, mostrando le prove e le modalità degli insani gesti; collegano tracce e simboli dando forma a codici che superino i provincialismi linguistici; prefigurano la metamorfosi dei corpi e lo stravolgimento delle apparenze; percorrono le vie delle distorsioni percettive e dell’alterazione sensoriale; testimoniano il trapasso delle tradizioni e lo sfaldamento dei coaguli di senso; rincorrono quel sottile confine tra la materia solida e definibile degli oggetti e il loro abisso molecolare e atomico; si appropriano dei prodotti tecno-ibridi e ne verificano l’utopia; giocano con la verità degli oggetti e la loro presunta autenticità. E sì, è tutto un po’ oscuro, ma non solo in questa sintesi delle diverse opzioni. Per fare in fretta, sbagliando, si potrebbe dire che assomiglia al futuro.

L’ARGENTINA con base a New York Mika Rottemberg nell’enigmatico, poetico e ironico video «Spaghetti Blockchain» (2019) oppone le immagini e il canto eternante di una donna sullo sfondo dell’infinità del paesaggio siberiano alle visioni e ai suoni di un laboratorio posticcio, da lei stessa costruito, nel quale tra stridii e rumori inarticolati viene testata la resistenza di oggetti, cibi e corpi: una conturbante visione dell’irreversibile accumularsi delle cose nel tempo in un sistema compatto e non alterabile senza il suo stesso collasso. L’artista turco Ozan Atalan sceglie il bufalo asiatico come simbolo dello stravolgimento di habitat e paesaggio: in «Monochrome» (2019) lo scheletro dell’animale occupa la parte centrale della stanza, mentre nell’angolo due schermi allineati fanno scorrere le immagini incompatibili del cemento che invade i pascoli; lo sguardo cerca e ricrea per entrambi la peculiare geometria di forme, come filtrate da una ponderazione cromatica che ne uniforma la tonalità. La coreano-berlinese Haegue Yang con la versione site specific di «Incubation and Exhaustion» (2019) propone un’esperienza ibrida e immersiva: una gigantografia di ortaggi colti nella loro essenza molecolare fodera una stanza in cui fluttuano sculture animal-vegetali gommose e un verso sconosciuto di uccelli, producendo così un’atmosfera insieme festosa e mortifera.

PRESI SINGOLARMENTE, qui e là, gli artisti riescono in qualche caso a dragare un certo fondo emotivo che il visitatore forse si porta dietro, già avvisato che nel flusso delle occasioni si sarebbe dovuto confrontare con temi così capitali per il destino umano. È solo il visitatore a rimanere avviluppato in questa grandiosa chiamata? O anche gli artisti finiscono per dare consenso a una leva che nel suo vastissimo orizzonte rischia di mostrare un impianto addirittura controriformistico? Nel grande magazzino della Biennale sembrano essere tutti d’accordo, rasserenati dal fatto di contribuire ad un importante scopo: risanare la coscienza del mondo in rovina.