In guerra il diritto tace. Ciò è vero, soprattutto, se non si crede allo jus ad bellum, alla possibile esistenza di una guerra giusta, che sia perciò legittima. È ancor più vero se si percepisce la fragilità dello jus in bellum, verificata l’incapacità di far valere una tutela dei diritti umani in situazioni di scontro armato. Forse, dopo la guerra, qualcuno sarà condannato per i crimini contro l’umanità perpetrati dagli aggressori, ma intanto i morti, le sevizie e gli orrori si saranno moltiplicati. Le vittime di entrambe le parti non potranno risorgere.

Il “ripudio” della guerra, in fondo, è motivato dalla consapevolezza dell’impossibilità di poter porre freno alla barbarie della guerra, al “flagello” che essa rappresenta. Ma è anche il frutto della consapevolezza che la guerra non è un destino, e dunque rappresenta un’assoluta necessità far cessare i conflitti armati da chiunque promossi, quale che sia il barbaro o i barbari che gli hanno provocati. Ed è per questo che chi pensa alla guerra misura la propria e l’altrui “forza”, entro una logica ineluttabilmente di potenza e violenza, mentre chi cerca la pace si sforza ostinatamente e nonostante tutto di parlare il linguaggio dei diritti. Al “si vis pacem, para bellum”, dovremmo preferire un più energico “si vis pacem, para pacem”.

Non è qui in discussione il diritto di resistenza. L’articolo 51 dello Statuto dell’Onu legittima la guerra del popolo e dell’esercito ucraino, essa rientra in quel che è stato definito il “diritto naturale di autotutela individuale e collettiva”. Che è, in fondo, lo stesso principio inscritto nella nostra Costituzione che definisce “sacro” il dovere di difendere il territorio italiano da parte dei cittadini. Ma la domanda alla quale dovremmo provare a rispondere è un’altra. Qual è il compito che spetta alle Nazioni non belligeranti per riuscire a far cessare le ostilità, fermare l’invasore e così “porre fine al conflitto”? Se è ovvio che siamo di fronte ad una drammatica emergenza umanitaria, occorre una straordinaria iniziativa per ripristinare “la pace e la sicurezza internazionale”, individuando una “soluzione pacifica”, come richiede sempre la Carta Onu agli articoli 51-54.

Certo oggi scontiamo la debolezza – se non il fallimento – dell’ordinamento Onu, che qualcuno aveva immaginato diverso dall’ordinamento internazionale, non più fondato sulla parità degli Stati e per questo in grado di assicurare la pace. Stiamo pagando a caro prezzo la sua mancata riforma e quella del Consiglio di Sicurezza in specie, con la conservazione dei poteri di veto attribuito alle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Però è anche vero che l’Onu non è del tutto assente, parla con una flebile voce che dovrebbe essere raccolta ed amplificata: l’Assemblea delle Nazioni Unite ha adottato con maggioranze mai raggiunte in precedenza – 141 e 140 Stati a favore – due importanti risoluzioni di condanna dell’aggressione Russa, con la richiesta esplicita che cessi immediatamente l’uso illegale della forza in Ucraina. Questo non basta, è evidente: senza l’impossibile consenso del Consiglio di sicurezza, la volontà di quasi tutti gli Stati del mondo non riuscirà ad imporsi.

Ma proprio la debolezza – se non impotenza – dell’Onu accentua la responsabilità della comunità internazionale: degli Stati, ma anche della società civile globale. Ad essi spetta dare seguito alla determinazione espressa in sede Onu. Un modo c’è ed è quello di indire subito una conferenza a tal fine. Per far cessare la guerra, ma anche per garantire la pace.

Il nostro Paese, si faccia promotore, assieme all’Europa, di una proposta concreta. Si invitino tutti gli Stati e le potenze mondiali a Roma, senza preclusioni di parte, e si inizino i colloqui per definire un nuovo trattato sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e nel mondo, sul modello conferenza di Helsinki (non invece sul modello di quella di Yalta per dividersi le sfere di influenza del mondo). Può essere una via per ritrovare la pace e per ridare voce al diritto. Non lasciando solo ai paesi belligeranti – Ucraini e Russi – il compito di trattare la cessazione delle ostilità, in base ad accordi bilaterali che non potranno che essere figli dei rapporti di forza. Non solo la guerra, ma neppure la pace è unicamente “affar loro”.

Spetta alla comunità internazionale – prima ancora che ai Paesi in guerra – garantire la sicurezza tra i popoli e le Nazioni. Rimettendo in discussione i complessivi rapporti geopolitici e gli ormai evidenti squilibri che coinvolgono i rapporti internazionali tra potenze ed aree geografiche. Un’assunzione di responsabilità appare necessaria per non lasciare le cose come stanno, in attesa della prossima avventura bellica, o del prossimo leader che vuol farsi imperatore del mondo. Il diritto sopravvivrà alla guerra se riuscirà a ripudiarla, non solo a sconfiggerla militarmente.