Nell’ultimo cinquantennio la globalizzazione del sistema capitalista ha raggiunto un’estensione e pervasività straordinarie rispetto a quelle che hanno caratterizzato le fasi precedenti della sua storia.

Senonché la stessa estensione della globalizzazione capitalista a gran parte del mondo contemporaneo ha portato ad una varietà di conformazioni del sistema in contesti molto diversi tra loro per storia, struttura sociale, interessi, alleanze. Tali differenze sono particolarmente pronunciate in casi come quelli della Federazione russa e degli altri stati post-sovietici che, al pari dei paesi socialisti dell’Europa orientale, hanno conosciuto la transizione da economie di piano a vari approdi economici e politici al capitalismo.

Non meno particolare è il caso della Cina, passata a quella che i suoi governanti definiscono una “economia socialista di mercato”. Altre rilevanti peculiarità sociali e politiche contraddistinguono l’India, ma sono riscontrabili anche nei maggiori paesi del Sud America o in altri, più piccoli, ma situati in regioni strategiche come il Medio Oriente e il Nord Africa.
Di fronte ad una realtà tanto varia e complessa la pretesa di imporre vecchie supremazie e gerarchie nell’ordinamento dei rapporti politici internazionali è palesemente obsoleta e velleitaria.

Per questo, iniziative di politica estera come quelle intraprese dall’Amministrazione Biden rispecchiano concezioni e mire del tutto superate. Il che le rende dannose per tutti. Esse rischiano, infatti, di rilanciare ed acutizzare in maniera unilaterale una competizione tra differenti interessi geo-economici e politici, che andrebbero invece mediati e bilanciati sulla base di una concezione plurale e il più possibile cooperativa di obiettivi e aspirazioni pur diverse.

La pretesa di un rilancio della premiership del blocco atlantico è tanto più antistorica e pericolosa in quanto comporta necessariamente la riaffermazione di un tipo di sviluppo, cui si sono in vario modo accodate anche le nuove potenze e i paesi in via di sviluppo, e che ha portato il mondo sull’orlo di crisi terminali.

La devastazione dell’ambiente, il riscaldamento del pianeta, la concentrazione dell’aumento della popolazione mondiale nei paesi più poveri, l’allargamento a forbice delle diseguaglianze tra paesi più e meno sviluppati e all’interno sia degli uni che degli altri, cui si aggiungono ora anche le disastrose e non casuali conseguenze della pandemia in atto, dimostrano con tutta evidenza la necessità di un diverso concerto dei rapporti internazionali per far fronte alle interdipendenze e dimensioni globali dei problemi che incombono sul nostro futuro prossimo. Il che richiede che una nuova concezione, paritaria e cooperativa, dei rapporti internazionali gravitanti intorno a nuovi obiettivi e strategie di sviluppo.

In altri termini, l’affrancamento da un atlantismo obsoleto e pervicace ha una finalità duplice.
Da un lato, significa interrompere un’intollerabile catena di interventi armati o supporti indiretti a conflitti interni, messi in atto negli ultimi decenni in diversi paesi dell’America Latina, dell’Africa settentrionale e subsahariana, del Medio Oriente.

Iniziative dimostratesi tanto devastanti per le popolazioni coinvolte, quanto controproducenti per la stabilità e il miglioramento degli equilibri politici internazionali. Dall’altro, deve promuovere un nuovo tipo di sviluppo che arresti la distruzione degli equilibri naturali e sociali.
In definitiva, occorre una concezione differente e nuova dei rapporti internazionali, pensata in un’accezione positiva e complementare delle diversità, che devono convivere in rapporti di collaborazione quanto mai necessari nel concorso alla costruzione di un nuovo sistema-mondo.