Si chiama Suhad al-Khateeb, è un’insegnante e un’attivista per i diritti delle donne e dei poveri, è comunista e vive a Najaf. Più di al-Sadr è lei lo specchio dei risultati delle parlamentari irachene del 12 maggio. Da donna, femminista e comunista, ha vinto un seggio in una città insospettabile, la città santa dello sciismo, cuore della teologia e del potere politico sciiti, sede della Moschea di Ali, quarto califfo e capostipite della corrente.

Suhad si è candidata con il Partito Comunista nella coalizione Sairun, guidata dal leader religioso sciita Moqtada al-Sadr. Era già conosciuta: da anni gira per Najaf, tra i quartieri poveri e le baraccopoli, parla con studenti, lavoratori, disoccupati. «La gente mi faceva visita a scuola, mi guardavano e dicevano che ero un modello, come un politico dovrebbe essere».

Suhad al-Khateeb

E si è fatta eleggere, soffiando via d’un colpo il tradizionale conflitto tra islamismo e comunismo, con il secondo considerato da decenni nel mondo arabo un movimento di senza dio, pericoloso per la tenuta della società. In quella irachena, risalgono agli anni ’50 gli editti del teologo Muhsin al-Hakim (leader dell’hawza di Najaf, scuola di giureconsulti sciiti) che tacciando i comunisti di miscredenza hanno significativamente intaccato l’appeal del Partito Comunista tra i fedeli praticanti.

Ma l’Ira del 12 maggio è apparso un paese diverso: sebbene la metà degli elettori abbia preferito restare a casa, frustrato dai mancati cambiamenti del dopo-Saddam, chi ci è andato ha espresso nelle urne il desiderio di unità. Stanchi dei vecchi leader, hanno scelto facce nuove. In molti stavolta hanno scelto le idee e non l’identità (un esempio: lo sciita al-Abadi è arrivato primo nella provincia sunnita di Ninive).

Sairun ha messo insieme le istanze sadriste e comuniste: lotta a disoccupazione, corruzione e influenze esterne, quelle statunitensi e quelle iraniane. Ha vinto, primo partito con 54 seggi su 329, confermati dai risultati ufficiali di sabato.

Subito sono partite le consultazioni. Al-Sadr, che non si è candidato e non potrà essere nominato primo ministro, tra sabato e domenica ha incontrato il premier uscente al-Abadi (che con la lista Nasr ha ottenuto 42 seggi) e Hadi al-Amiri, leader della coalizione Fatah delle milizie sciite che hanno combattuto – sotto l’ombrello iraniano – l’Isis (47 seggi).

Per un governo di seggi ne servono 165. Da qui l’ineluttabilità di una coalizione composita: «È necessario accelerare la formazione di un governo di padri il più ampio possibile», ha detto al-Sadr domenica proponendo larghe intese che tengano conto della natura diversificata, sul piano etnico, confessionale e sociale, dell’Iraq.

Il giorno prima, accanto ad al-Abadi, aveva ribadito l’intenzione di formare un governo «inclusivo» («Non escluderemo nessuno, lavoreremo per riforme e prosperità»), consapevole – quanto il premier – del buio che avvolge l’Iraq: la ricostruzione non è partita, nonostante alcune città (Ramadi, Fallujah, Sinjar) siano state liberate da anni dall’Isis, in tre milioni restano sfollati, i salari calano, la disoccupazione sale.

La stampa avanza ipotesi: Sairun potrebbe unire le forze a quelle di al-Abadi (di cui ha già incassato il sì), del partito curdo-iracheno dei Barzani, il Kdp, dei laici di Wataniya e di altre liste minori. Al-Abadi, figura popolare in gran parte del paese, potrebbe restare primo ministro con la benedizione delle potenze straniere che lo considerano un moderato che non pende verso un asse in particolare, né iraniano né Usa.

Un blocco necessario, nella visione sadrista, a contenere la concorrenza: un’alleanza tra il secondo e il terzo partito, le milizie sciite di al-Amiri e l’ex premier Maliki (considerato da molti origine dei mali che attanagliano il paese dal 2003), con il suo tesoretto di 26 seggi. Un’alleanza dalla forte impronta «iraniana»: da una parte le unità gestite e armate dalle Guardie Rivoluzionarie e dal generale Suleimani, dall’altra un leader notoriamente vicino alla Repubblica Islamica.

L’Iran ha ripetuto ieri di non voler interferire e di accettare qualsiasi governo nascerà. Ma resta il peso esercitato in questi anni su Baghdad, visto come naturale tassello dell’asse che da Teheran arriva in Libano, passando per la Siria.