“Va bene in tempo di pace, non per tempi difficili”. Il vicepremier Taro Aso lo aveva bollato così nel 2020, quando aveva scelto di votare per Yoshihide Suga e non per lui alle elezioni interne del partito liberaldemocratico. Poco più di un anno dopo, Fumio Kishida è diventato il primo ministro in pectore. Eppure, il Giappone sembra ancora navigare in acque turbolente. Quantomeno nelle sue relazioni con la Cina, che l’anno prossimo compiranno il cinquantesimo anniversario. Kishida è considerato una “colomba”, non particolarmente incline alla revisione della costituzione pacifista che ha anzi più volte lodato.

Diplomatico esperto, nei suoi oltre quattro anni e mezzo da ministro degli Esteri (dicembre 2012-agosto 2017) ha lavorato alla distensione dei rapporti con Pechino, che all’alba della seconda era Abe erano ai minimi termini. Allo stesso tempo è stato capace di contribuire alla storica visita di Barack Obama a Hiroshima e a fare a gara di bevute di vodka e sake con l’omologo russo Sergej Lavrov. Una duttilità comune al suo ex capo di governo e che ne ha accresciuto il rispetto sia a Zhongnanhai sia alla Casa Bianca, nel cui team ritrova ora il vecchio amico John Kerry. A Pechino avranno tirato un sospiro di sollievo a veder prevalere Kishida e non Sanae Takaichi, nazionalista conservatrice che aveva promesso di continuare a visitare il santuario di Yasukuni anche nella veste di primo ministro, come fatto a suo tempo da Junichiro Koizumi. Difficile che ciò possa accadere con Kishida, leader della fazione Kochikai, tradizionalmente molto dialogante con la Cina. Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha detto che Pechino è pronta “a lavorare con la nuova squadra di governo per rafforzare la cooperazione e promuovere lo sviluppo sano delle relazioni bilaterali”.

Nelle ultime settimane, però, la “colomba” ha provato almeno parzialmente ad assumere le sembianze di un “falco”. Ha preannunciato la creazione di un ruolo da consigliere speciale sui diritti umani, in quello che è sembrato un implicito riferimento alle vicende di Hong Kong e Xinjiang. Kishida ha anche definito Taiwan “il prossimo grande problema diplomatico” per Tokyo nei rapporti con il grande vicino, affermando che da premier avrebbe perseguito un approfondimento dei legami con Taipei. Ha appoggiato la richiesta di adesione taiwanese alla CPTPP, l’accordo di libero scambio transpacifico di obamiana memoria nel quale vorrebbe entrare anche la Cina.

Ha anche chiesto un ulteriore aumento della capacità e del budget di difesa, compreso un rafforzamento della guardia costiera in risposta alle attività cinesi nel mar Cinese orientale. Kishida afferma di voler rinsaldare i rapporti di sicurezza con gli Stati Uniti e gli altri partner regionali come Australia e India in ambito Quad. “I tempi sono cambiati, anche la Cina è cambiata e sono preoccupato per la sua attitudine autoritaria”, ha detto nelle scorse settimane per aggiornare il suo posizionamento su Pechino. Ma è difficile attendersi colpi di testa. Il neo leader liberaldemocratico ha già sottolineato l’importanza di svolgere regolarmente incontri diplomatici con la Cina, forse prendendo implicitamente le distanze dalla cancellazione della visita di Xi Jinping a Tokyo prevista per la primavera del 2020. Tokyo vuole la diversificazione delle proprie catene di approvvigionamento, non il decoupling. E vuole un’America proattiva nel contenere la Cina e garantire sicurezza ai partner, non lo scontro. La pandemia ha però accelerato il bisogno di diversificazione economica e la tendenza alla divaricazione diplomatica tra Tokyo e Pechino, con un Giappone che ha perso molta della sua tradizionale cautela sugli affari che la Cina considera interni. Tempi difficili, appunto. A Kishida il compito di navigarli senza eccessivi scossoni.