Total filmaker, un cineasta veramente completo è Carlo Hintermann. Il suo nome per intero è Carlo Shalom Hintermann, per distinguerlo dal nome del padre, il famoso attore scomparso nell’88, mapnormalmente lo semplifica. I suoi studi di cinema li ha compiuti alla Sapienza di Roma e poi a New York dove ha ottenuto il diploma di regia: direttore della fotografia, operatore alla steadycam, tecnico del suono, regista di documentari che hanno lasciato il segno come The Dark side of the sun (2011), e altri che ne tracciano esattamente il profilo di profondo conoscitore di cose cinematografiche come Otar Ioseliani (1999), Rosy-fingered Dawn: un film su Terrence Malick (a Venezia nel 2002) oltre a produrre e dirigere per Malick l’unità italiana di The Tree of Life. Parliamo con lui della collaborazione con Amos Gitai (una questione di affinità oltre che di «correligione», dice) anche per parlare del suo ruolo nei film in uscita, come quello sull’assassinio di Rabin, di cui proprio in questi giorni sta lavorando al montaggio del suono per le riprese fatte in Italia (il film è stato girato in Israele) come già aveva fatto per Ana Arabia che poi ha distribuito per l’Italia insieme a Fabrizio Ferraro con la casa di distribuzione Boudu.
«Ho sempre seguito il lavoro di Amos, dice, sono un appassionato del suo cinema. L’ho incrociato in situazioni legate alle manifestazioni di Enrico Ghezzi come il festival di Taormina. Poi si è presentata l’occasione di coprodurre Tsili, il film che è stato presentato alla mostra di Venezia lo scorso anno. Come sempre quando si ammira un regista i ruoli non sono mai ben definiti, si scopre di essere vicini su molte cose, in questo caso anche per l’approccio anarchico che ci vuole per poter mettere insieme un film che ormai è diventato difficile per tutti quelli che non vogliono scendere a compromessi. Per realizzare i film in quel modo anche la parte produttiva è creativa. Caratteristica apprezzabile di Amos è che lotta per fare il film che ha in mente. Ed è interessante che lavora con collaboratori che sono affini a lui, sempre gli stessi, come Alex Claude il suo montatore del suono che dà un grande contributo al suo lavoro». Il sonoro che è stato piuttosto sottovalutato in Italia rispetto ad altri aspetti della lavorazione: «Ma in Italia sta cambiando qualcosa riguardo a questo, oggi ci sono grandissime professionalità, infatti molti registi vengono a compiere il lavoro nei nostri laboratori».
Un altro film di cui si parla come prossimo progetto di Amos Gitai è quello dedicato a Grazia Mendez, la misteriosa ebrea portoghese del ’600 giunta dopo un lungo viaggio da Anversa, a Venezia fino a Matera. In questo c’è un’affinità anche con il tuo interesse per aspetti sconosciuti della comunità ebraica, come avevi espresso in Chatzer: volti e storie di ebrei a Venezia: «È un film di cui non è ancora stata stabilita la data di inizio, non è stato ancora messo a fuoco. Certamente protagonista sarà Isabelle Huppert. Si potrebbe parlare di un filone preciso che ci accomuna e che ci porta a interrogarci su qualcosa di non scontato, su figure controverse che hanno preso in mano la storia. Attraverso personaggi come questo che appartengono a delle minoranze vediamo in nuce qualcosa che poi verrà fatto in seguito dalla maggioranza. Le minoranze devono fare sforzi notevoli perché pressati dalla necessità. Così donna Grazia che era una banchiera, una donna potente, decide di andare al Solimano il magnifico per chiedergli di comprere Tiberiade per farci un proto stato ebraico». Rabin però è ben più conosciuto: «Si mettono in evidenza dei lati che si conoscono poco. In questo caso Amos mostra per la prima volta tutta la campagna di odio accumulata nei suoi confronti, qualcosa che non tutti conoscono quanto la morte di Rabin. La sua era forse una morte annunciata. Anche in questo caso il lavoro di Amos mette in luce elementi sconvolgenti. Ma di tutto questo avrà modo di parlare lui stesso quando il film sarà presentato».
Torniamo un attimo indietro: nella tua così varia esperienza professionale colpisce il fatto che hai cominciato a lavorare con Zanussi, un regista in Italia talmente connotato da non essere neanche valutato per la sua importanza sul piano internazionale, relegato a portavoce del cattolicesimo: «Finita l’università, al ritorno da New York Krzyzstof doveva fare la regia di uno spettacolo con mio padre. Io cercavo di fare qualcosa in Italia, poi la curiosità di esplorare qualcosa del cinema polacco, soprattutto per quanto riguarda i direttori della fotografia mi spinse ad accompagnarlo. Krzyzstof fu molto accogliente, tanto che ho abitato a casa sua e ho scoperto un universo molto interessante. In quel periodo poi la sua casa di produzione Tor aveva prodotto i film di Kieslowski. Sì è vero che di Zanussi si ha da noi un’immagine distorta, vederlo nel prisma polacco è più evidente, qui se ne ha una percezione strumentale. Mettere a fuoco l’esatta percezione è quello che mi affascinam, come per Iosseliani e Malick che è stata la porta del cinema americano, come per Iosseliani quella verso la cultura georgiana così sofisticata a tutti i livelli, sul piano letterario, musicale».
Dici di alternare produzione e regia. Ora è la volta della regia: «C’è un progetto per il prossimo anno di cui Malick sarà il produttore esecutivo, è una cosa mi inorgoglisce molto».