Dopo oltre 80 giorni di estenuanti trattative, gli sforzi dei partiti e, soprattutto, del presidente della Repubblica si sono risolti in un nulla di fatto.

L’ultimo tentativo, affidato a Giuseppe Conte, si è bloccato definitivamente di fronte ai veti dei due partiti che lo avevano prescelto in mancanza di meglio. E alle puntigliose garanzie richieste – com’è suo preciso dovere costituzionale – da Mattarella.

A questo punto, dopo un breve governo del Presidente affidato all’economista Carlo Cottarelli, gli italiani saranno chiamati nuovamente alle urne, ma – prevedibilmente – con alternative e proposte politiche differenti rispetto a quelle del 4 marzo.

È ancora troppo presto per capire cosa bolle nella pentola sovran-populista di Salvini e Di Maio (l’ordine dei leader non è affatto casuale). Ho però l’impressione che i due “capi politici” avessero già messo in conto questa evenienza.

Anzi, la rigidità con la quale il leader della Lega ha gestito la questione della nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia fa ipotizzare che avessero già elaborato una exit strategy per andare direttamente al voto e saltare una prova di governo che, con i numeri traballanti al Senato, avrebbe potuto logorarli già nel giro di qualche mese, ancor prima dell’importante scadenza elettorale delle prossime elezioni europee.

Chi pensa che il voto anticipato sarà un remake del 4 marzo, magari con un tifo un po’ più esagitato, si sbaglia di grosso. Quasi sicuramente cambieranno sia le formazioni che si confronteranno alle elezioni sia i temi di fondo attorno ai quali avverrà lo scontro, già presentato da Salvini come un referendum (ma su chi, su che cosa?).

Il tempo che la Lega e il M5S hanno trascorso per individuare un accordo sul «Contratto per il governo del cambiamento» non è passato invano (anche grazie al silenzio accidioso della sinistra).

I dirigenti dei due partiti hanno cominciato a conoscersi, persino a rispettarsi, ma soprattutto hanno capito che – pur con tonalità e audience diverse – parlano uno stesso linguaggio di matrice schiettamente populista e possiedono un nemico comune: le (fantomatiche) tecno-plutoburocrazie europee che hanno impedito la formazione di un governo “unto” dalle elezioni.

Un avversario in comune è già sufficiente per costruire un embrione di alleanza tattica che si presenti al prossimo “referendum” anticipato per chiedere un mandato diretto e indiscusso da parte del popolo sovrano.

Questa è la trama del film che vedremo proiettato in tutte le piazze nel corso dell’estate e farà da apripista a un autunno politicamente caldo, certamente rovente.

Ma oltre a questa motivazione ideologica, ce n’è un’altra altrettanto valida che finirà per compattare M5S e Lega in una “coalizione per il cambiamento” e riguarda le caratteristiche della legge elettorale intitolata a Ettore Rosato.

Infatti, con la distribuzione dei voti osservata il 4 marzo, fortemente asimmetrica al nord per la Lega e ugualmente asimmetrica al sud per il M5S, un’alleanza giallo-verde permetterebbe alle due forze politiche di fare praticamente l’en plein nei collegi uninominali: conquistandone all’incirca il 90% sia alla Camera che al Senato.

Anche questo – sia detto non troppo per inciso – è l’ennesimo frutto avvelenato di una pessima legge elettorale che non conosce attenuanti.

Di fronte a questo scenario, simulato ma tutt’altro che fantapolitico, il rischio è di trovarci tra qualche mese non al punto di partenza, ma con un parlamento dove le minoranze controllano un terzo o poco più dei seggi e i partiti al governo potrebbero avere una maggioranza in grado di modificare a loro piacimento le regole costituzionali.

Questo è il rischio che corre l’Italia, e non certo quello rappresentato da un presidente della Repubblica che ha esercitato fino in fondo e nel rispetto delle sue prerogative i poteri che la Costituzione gli assegna.

È probabile dunque che il prossimo voto vedrà uno schieramento compatto di forze anti-establishment alla ricerca di un rafforzamento popolare e poi parlamentare. Quello che drammaticamente manca oggi nel panorama politico italiano è il senso di responsabilità di un’Italia civile che sappia trovare la forza e le motivazioni per organizzarsi di fronte a una minaccia che contiene in sé un letale virus illiberale.

Possibile che persino di fronte a questo scenario la sinistra – tutta, dispersa in tutti i suoi inutili rivoli – non abbia nulla da dire?