Il diritto di voto è una delle espressioni fondamentali della cittadinanza. Ma tutti i sondaggi rilevano che alle prossime elezioni europee il primo partito dell’Unione sarà l’astensione. In Francia, alla domanda sul sentimento di appartenenza, il 19% risponde di sentirsi «soltanto francese», il 46% «più francese che europeo» e solo il 32% dichiara di essere «altrettanto francese che europeo». Cos’è la cittadinanza europea? Che rapporto ha rispetto a quella nazionale, in un contesto – l’Europa – che ha dato i natali allo stato-nazione come matrice della cittadinanza? L’Unione europea non è uno stato, con frontiere definite, leggi e amministrazione omogenee, spesso una lingua comune, il quadro entro il quale si esercita il diritto di cittadinanza nello stato moderno e la democrazia (anche se lo stato-nazione non è sempre democratico). Nel ’79 c’è stata la prima elezione a suffragio diretto del Parlamento europeo e nel 2009, con il Trattato di Lisbona, una cittadinanza europea si è aggiunta a quelle nazionali. Ma oggi la paura domina la discussione pubblica con gli euroscettici alimentano un desiderio di chiusura.

Per districarsi in questo complicato campo è di grande aiuto il libro della ricercatrice Teresa Pullano, La citoyenneté européenne, Une space quasi étatique (SciendesPo, pp. 300, euro 25). Gli euroscettici chiedono «confini» e l’Europa ha un territorio non definito precisamente (c’è stato l’allargamento, ci sono i paesi in attesa di diventare membri). Ma non per questo l’Europa è disincarnata territorialmente, spiega l’autrice: «esiste un territorio formale dell’Unione, distinto dai territori degli stati membri, un territorio costituito dal diritto», scrive nell’introduzione Jean-Marie Donegani. Gli spazi nazionali vengono superati con il diritto alla libera circolazione dei cittadini. L’idea tradizionale di cittadinanza viene così modificata, perché lo spazio in cui viene esercitata non è più chiaramente definito a livello territoriale. La cittadinanza europea è in fieri attraverso la libera circolazione e la governance dei flussi. Si tratta di una cittadinanza «eterogenea», che deve saper dare senso politico a tutte le opposizioni che la costituiscono (tradizionali, giuridiche, culturali, linguistiche). Al contrario di quanto propagandano gli euroscettici e l’estrema destra, la cittadinanza europea non è la causa delle debolezza crescente delle democrazie nazionali, ma è proprio il loro disgregarsi che impone la costruzione di un altro paradigma.

Per ora, siamo in mezzo al guado, per di più colpiti dalla crisi economica che ha esasperato le contraddizioni e le rivalità nord-sud, est-ovest. Negli anni Novanta hanno dominato gli studi sulla possibilità di «costruire una democrazia postnazionale e cosmopolita», mentre «a partire dalla seconda metà del primo decennio del XXI secolo, l’ottimismo di queste analisi lascia il posto a studi più critici». La scommessa è ora una cittadinanza europea come «bene comune» di spazi di partecipazione, un progetto che inglobi tutti i residenti di uno spazio politico e giuridico e che non soffochi le eterogeneità al fine di garantire una piena democrazia.