Una città senza fine, la «città delle città», la Parigi che Alberto Giacometti cattura tra il 1958 e 1965 nelle 150 litografie di «Paris sans fin» esposte alla Fondazione Geiger di Cecina (Livorno). I 150 fogli raccolti in una sola cartella divennero un libro tre anni dopo la morte dello scultore svizzero, per volontà dell’editore e amico Tériade, che aveva già pubblicato Léger e Matisse.

Nel 1969 «Paris sin fin», il corpus grafico più importante dell’artista svizzero noto ai più per le sculture filiformi, si trasforma nell’estremo lascito di una lunga e prolifica traiettoria artistica. Reduce dal soggiorno italiano nei primi anni ’20, durante il quale ha l’opportunità di ammirare Tintoretto e Giotto, l’artista conserva il gusto per la sobrietà mischiandola dapprima con la necessità di sintesi e astrazione analitica che promuove l’avanguardia cubista e dopo avvicinandosi ad una posizione di aperta rottura con la rappresentazione e il concetto di realtà.

Entrato in contatto con André Breton, Max Ernst, Miró e Picasso, Giacometti aderisce nel 1928 al surrealismo, per abbandonarlo nel ’35, periodo nel quale la sua ricerca si concentra sulla testa e sullo sguardo, sede del pensiero umano. A lungo l’artista svizzero non espone, ma lavora intensamente nel suo atelier di Rue Hippolyte Maindron, il minuscolo studio che non abbandonerà mai, dove continuerà a creare per 40 anni.
Allo scoppio della guerra, Giacometti torna in Svizzera e il suo interesse si sposta dalla vita onirica a quella reale per iniziare a rappresentare la desolante solitudine esistenziale dell’uomo attraverso le sue figure sottili, che sembrano prossime a spezzarsi sotto il peso della loro condizione.

È nel periodo post bellico, nella Parigi del 1946-47, che lo scultore mostra la propria visione maturata dell’umano, consumato dalla guerra, visto fragile come uno scheletro, lungo come un’ombra. Il nuovo Giacometti espone nelle città europee e statunitensi più importanti tra il ‘58 e il ’60, anno in cui i vecchi modelli – il suo biografo statunitense James Lord, il filosofo giapponese Isaku Yanaihara, il fratello Diego – lasciano spazio alla sua amante Caroline, il cui vero nome è Yvonne Poiraudeau, una prostituta legata alla mala della quale Alberto si innamorerà e che vorrà al suo capezzale nel momento della sua morte, 6 anni dopo. Caroline, con la MG fiammante che Giacometti le ha regalato è alla guida mentre scorrazzano per le strade di Parigi per il progetto di reportage litografico voluto da Tériade, che non avrà mai le 15 pagine di testo previste nel progetto originale: le architetture e le fisionomie, i marciapiedi e gli interni dei bistrot, il suo atelier del quale intuiamo la confusione, tra carte e utensili, sgabelli e cavalletti, il tratto nervoso e mai definitivo di Giacometti si piega al suo sguardo senza fine, che fa del non finito la chiave della sua ricerca incessante.

A compensare la difficoltà e infine il fallimento del testo verbale, la matita litografica traccia con la medesima efficacia nudi e avventori di Chez Adrien, i tavoli apparecchiati e gli scorci con i lampioni di Parigi, ripresi dall’interno dell’autovettura sportiva dell’amante. C’è tutta la freschezza del gesto dietro alla lunga pratica della litografia, difesa da una sequenza narrativa che imita un montaggio di istantanee della città amata e rivissuta. L’allestimento sequenziale curato da Klaus Littmann permette una visita ininterrotta, senza fine, arricchita dai formidabili scatti di Ernst Scheidegger che ritrae l’artista al lavoro.

Fino al 24 febbraio, ingresso libero (orario 16-20).