A volte, i libri hanno uno strano destino. C’è quello che l’autore rifiuta, riscrive completamente, eppure sarà proprio la versione mai pubblicata con il consenso dello scrittore che resterà indissolubilmente legata al suo nome, donandogli fama imperitura. C’è quello letto e apprezzato in versione monca che acquisterà nuovo spessore e nuovi significati con la scoperta della congrua parte mancante.

C’È QUELLO, INEDITO, affidato a un amico affinché lo bruci, che sarà pubblicato, dopo la morte dell’autore, da quello stesso amico, mancato piromane, cambiando completamente il corso della letteratura. E poi c’è quello passato praticamente inosservato al momento della pubblicazione che, ripubblicato quarant’anni dopo, rischia di diventare un caso letterario, rivelando addirittura insospettate, all’epoca, qualità profetiche sulla realtà attuale. È il caso, questo, di un breve romanzo di Giorgio De Maria, uscito originariamente per le edizioni del Formichiere nel 1977, intitolato Le venti giornate di Torino. Inchiesta di fine secolo e uscito adesso per Frassinelli (pp. 156, euro 17,50).

In realtà, la riscoperta del libro non si deve all’editore italiano, ma all’americana Norton che, all’inizio del 2017, lo ha mandato in libreria definendolo «il romanzo di culto da un autore letterario del calibro di Edgar Allan Poe e Italo Calvino». Narrato tutto in prima persona, il romanzo racconta l’indagine, avviata al fine di scrivere un libro da un anonimo dilettante, su quanto era avvenuto nella città sabauda nel corso di venti giorni, a partire dal 3 luglio di dieci anni prima. Avvenimenti inspiegabili e praticamente mai spiegati in seguito, se non come «un fenomeno di psicosi collettiva», avevano funestato Torino.

IN UN’ATMOSFERA malsana e malata che avvolgeva la città, durante la notte gruppi di cittadini insonni e dalle movenze quasi da zombie si aggiravano per le strade, mentre grida tremende solcavano l’aria che odorava di aceto. E avvenivano omocidi strani e terribili: uomini e donne presi per le gambe, venivano fatti roteare e poi sbattuti con violenza contro l’asfalto, un albero, una statua. E, sullo sfondo, ma forse nenache tanto, la nuova istituzione culturale che aveva catturato la città e che, prefigurando Facebook e i social, rappresenta l’elemento inspiegabilmente anticipatore del libro: la Biblioteca. Un luogo dove non si trovavano libri normali, quelli stampati dagli editori, ma manoscritti di privati cittadini: diari, confessioni, autobiografie. Insomma «documenti veri, autentici, che rispecchino l’animo reale della gente». Chiunque, pagando una piccola somma che andava in beneficenza, poteva depositare un proprio scritto oppure leggerne uno e conoscere il nome dell’autore. Nelle intenzioni dichiarate dai fondatori un nuovo modo di comunicare, di entrare in contatto, di farsi amici. O forse la funzione della Biblioteca era più nascosta, inafferabile, subdola?

SCRITTO IN UNA PROSA letteraria e alquanto raffinata, tipica di tanti racconti e romanzi d’orrore, Le venti giornate di Torino risulta essere un romanzo appassionante, per l’atmosfera angosciante che descrive, per la suspence che suscita, per le riflessioni che induce. Ricco di rimandi e ascendenti letterari, tra cui occorre citare almeno H. P. Lovecraft, è forse uno dei pochi romanzi italiani capace di mettere in scena e far giostrare con maestria quelle forze aliene e incontrollabili che dai limiti dell’oscurità aspettano di ritornare. Non solo, il testo, come vari altri libri del genere, è leggibile anche a un livello simbolico, metaforico, allegorico nei riguardi della contemporaneità.

GIÀ ALL’EPOCA della prima uscita qualcuno vi lesse riferimenti alla strategia della tensione. Se è vero, però, che ogni opera artistica o letteraria di qualità può arricchirsi di significati diversi a seconda del momento in cui viene fruita, allora il libro di Giorgio De Maria parla anche e soprattutto a noi. Come probabilmente si può evincere da ciò che un personaggio del romanzo afferma a proposito dell’antenata di Facebook, ovvero che servì «solo a fornire l’illusione di un rapporto con il mondo esterno: una misera scappatoia alimentata da un potere cinico e centralizzato, interessato a mantenere le persone nel loro stato di perpetuo isolamento».