Tempi di promesse solenni questi sotto campagna elettorale. Le più fantasiose soluzioni agli annosi problemi cittadini prendono forma nei programmi elettorali dei vari candidati. Eppure, nonostante gli approcci differenti e a volte opposti, le diverse proposte politiche sembrano partire dagli effetti più che dalle cause del declino romano: la sicurezza, il debito pubblico, il traffico, la qualità del trasporto pubblico e tanto altro ancora, costituiscono il risultato inevitabile del disastro urbanistico romano, origine dei mali cittadini.

La Capitale non è più una città, ci dicono l’urbanista Vezio De Lucia e il giornalista Francesco Erbani nel libro Roma Disfatta (Castelvecchi, pp. 144, euro 16,50), un agevole racconto a due voci che si sta trasformando in caso editoriale. «La Roma delle Mura Aureliane e delle prime cinture periferiche ignora cosa ci sia intorno al Grande raccordo anulare. E viceversa». Questo il risultato di un disordine urbanistico che ha portato più di un milione di persone a vivere in brandelli di metropoli affastellati lungo il Gra: «più ci si allontana dal centro più le nuove urbanizzazioni si diradano, si slabbrano fino a toccare indici di densità talmente bassi da non essere più pertinenti a una dimensione di città».

Roma in effetti è vittima di una contraddizione plateale: una città di neanche tre milioni di abitanti dispersa in un territorio sterminato (la città è grande quasi il doppio di New York, che però ha circa nove milioni di abitanti), e gran parte di questa espansione territoriale è avvenuta abusivamente, senza alcuna pianificazione pubblica. Per dare l’idea della devastazione territoriale da cui originano molti degli insoluti problemi cittadini, basti pensare che la città «abusiva», quella costruita illegalmente da costruttori e piccoli proprietari, copre un territorio di 15mila ettari, più dell’intera dimensione del Comune di Napoli, che di ettari ne copre «solo» 12mila: «non solo la città diventa un insieme di brandelli, ma questi sono talmente poco compatti, occupano tanto suolo e sono distanti fra loro al punto da non rendere possibile la fornitura di servizi adeguati. La città polverizzata non è più una città, perché non garantisce a tutti eguali diritti».

Gli abitanti di questa «non città» (un terzo delle aree edificate cittadine ha origine abusiva, un caso unico in Europa) sono però costretti tutte le mattine a recarsi nella città funzionale, quella del centro storico, dove si sommano tutte le attività economiche, amministrative e direttive del Comune, determinandone l’intasamento permanente con le sue conseguenze più o meno dirette: strade dissestate, traffico bloccato, sporcizia, caos generalizzato. «La forma o, meglio, la perdita di forma determina una delle condizioni di fatica esistenziale di Roma. Alcune delle sue patologie dipendono da essa e stupisce come molti osservatori si applichino a inveire contro i sintomi senza risalire alle cause». Colmo dei paradossi, più le cubature aumentano e i quartieri illegali sorgono senza pianificazione, più aumentano gli alloggi invenduti e il fabbisogno abitativo resta insoddisfatto. Frutto di una pianificazione che non pianifica: ratifica. Peraltro, concedendo miserie all’edilizia popolare: la spesa pubblica per la casa è pari allo 0,1%, nella Ue è allo 0,7 e in Francia all’1,9%. Il Piano regolatore «non interviene per definire l’assetto della città, non ha una visione, ma prende atto di quello che è maturato negli accordi fra l’autorità pubblica e la proprietà fondiaria e fornisce un involucro capiente. Un Piano regolatore generale che non è generale ma assembla tanti particolari».

Il «diritto alla città», le forme minime di accessibilità a ciò che costituisce la qualità urbana (mobilità, solidarietà, convivenza, spazio pubblico e via dicendo) mai potranno essere garantite a questa somma di periferie non comunicanti tra loro e con il centro, emarginate dal discorso pubblico soprattutto perché sconosciute, e dove si vanno accumulando rancori reazionari e pulsioni individualiste. Soluzioni immediate non sono pensabili, e infatti il libro non ha ricette semplici da proporre. Serve, però, un cambio di mentalità politica, che rimetta al centro il problema delle periferie e della riorganizzazione urbana della città, aggredendo le cause, e non gli effetti, del declino cittadino.