La prima sensazione che si prova dopo aver letto il libro di esordio di Mirko Zilahy, intitolato È così che si uccide (Longanesi, pp. 411, euro 16,40) è che una Roma così non si era mai vista. Una Roma da sempre associata al suo clima mite, al sole, al caldo, per tutti i diciannove giorni in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, è flagellata ininterrottamente dalla pioggia. Quasi come se una vicenda così oscura come quella narrata in questo thriller, avesse bisogno di un tale scenario cupo e inusuale. Uno scenario che sembra rispecchiare l’interiorità dei personaggi principali, le loro paure, le loro angosce, il loro dolore. Una situazione che se da un lato sembra richiamare opere letterarie e cinematografiche di grande successo – Blade runner in primis – fa venire in mente in realtà un piccolo capolavoro della letteratura italiana, Malacqua di Nicola Pugliese. Qui è un’altra città da sempre sinonimo di sole e bel tempo, ovvero Napoli, che mostra il su lato oscuro e magico durante quattro giorni di pioggia ininterrotta.

Ma la Roma narrata da Zilahy risulta inconsueta non solo per il clima, ma anche per il contrasto che presenta tra le sue architetture più note, antiche o barocche, e i suoi luoghi di archeologia industriale. Scavi archeologici, l’ex mattatoio, il Gazometro saranno gli scenari degli efferati delitti al centro del romanzo. E acquisteranno una dimensione terrificante, esemplificata magistralmente dalla visione del Colosseo e del Gazometro, percepiti quasi come immensi mostri che si stagliano nella cupa atmosfera, riecheggiando in qualche modo l’atmosfera della Londra Vittoriana o di alcuni racconti di Edgar Allan Poe.

La storia raccontata, a prima vista, rispecchia tutti i crismi del thriller. Il commissario Enrico Mancini, unico profiler della questura romana – si è specializzato a Quantico in crimini seriali – viene chiamato a indagare su di un serial killer che sta terrorizzando la città. Ma se lo sviluppo della storia, il succedersi degli omicidi, lo scenario retrostante sono tutti elementi tipici di questo genere di racconto, altri fattori risultano davvero inconsueti. Innanzi tutto la stessa figura dell’investigatore, il quale, dopo aver perso la moglie a causa di un cancro, non sopporta più la vista dei cadaveri, l’odore di morte, le porte chiuse. E che ha bisogno di indossare sempre un paio di guanti, quasi a rimarcare la volontà di separazione dal mondo esterno. Mancini, poi, sta seguendo un’altra indagine a cui tiene molto e non vuole trovarsi assolutamente coinvolto in quella che fin dal principio sente come una storia di omicidi seriali. C’è poi il rapporto che si instaurerà un po’ alla volta col killer, non a caso chiamato «l’Ombra».

Una strana relazione fondata su di un dolore profondo e che più che ricalcare gli schemi tradizionali sembra richiamarsi alla psicologia junghiana, suggerendo quasi che l’assassino incarni la parte oscura dell’inconscio del commissario o, forse, che entrambi gli antagonisti siano proiezioni delle profondità della psiche dell’autore. Del resto se c’è Jung nel romanzo non manca neppure Freud: Caterina De Marchi, una componente della squadra di Mancini, si troverà a rivivere la scena rimossa all’origine della sua incontrollabile paura per i topi.

Caratterizzato da una scrittura avvincente, all’interno della quale l’autore riesce ad integrare magistralmente registri medi ed alti, da livelli di suspence elevati – il libro si legge davvero tutto d’un fiato – da elementi di denuncia sociale e politica (si affrontano argomenti quali la sanità, le scorie delle centrali nucleari, la vita dei Rom) quello che più sembra caratterizzare maggiormente il romanzo di Mirko Zilahy è la sua capacità di essere letto a vari livelli, di mostrare, secondo il punto di vista in cui si pone il lettore elementi e temi differenti. Come se si trattasse di una complessa anamorfosi, ovvero una di quelle «immagini distorte, mostruose e indecifrabili che, se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con accorgimenti vari, si ricompongono, si rettificano, infine svelano figure a prima vista non percepibili».