Il cuore del festival di Locarno è la Piazza Grande. Uno spazio enorme, che verso il fondo curva anche un po’, trasformato da oltre quaranta anni nella più grande arena cinematografica d’Europa con un impianto audio e video che ha dovuto superare, brillantemente, notevoli difficoltà. Oltre a quelle logistiche legate alla chiusura di una piazza che deve dare posto e seggiole a migliaia di spettatori. La prima sera di festival, per Bullet train, è stato tutto esaurito, il che significa ottomila spettatori (non di più per motivi di sicurezza).

PIOGGIA permettendo (solo una serata rovinata e una disturbata) il bilancio è mediamente positivo, oltre quattromila spettatori per sera. Per il pubblico pagante (accreditati a parte quindi) il biglietto costa 28 franchi svizzeri per la proiezione unica, 37 in caso di doppia programmazione (il franco è di poco più alto rispetto all’euro). Per questo lo sguardo degli organizzatori è spesso rivolto al cielo, il tempo buono fa lievitare notevolmente gli incassi. Inaugurazione a parte il miglior risultato è quello di 5900 spettatori per Where the Crowdads Sing (La ragazza della palude), e 2800 per la Napoli di periferia del primo scudetto, Piano Piano di Nicola Posatore proiettato in seconda serata, quasi in notturna. Nell’insieme vale però la riprova della strana malattia che attanaglia i ticinesi, e il pubblico svizzero in generale. Durante il festival, classificato come l’evento culturale più importante del paese, si trasforma, diventando un esempio di cinefilia, capace di accorrere e riempire ogni sala della rassegna, discutere ogni film con piglio critico. Poi però come se la partecipazione al festival avesse esaurito ogni interesse, quasi spariscono dalle sale durante l’anno, sino alla prossima edizione locarnese.

PROPRIO In piazza ha avuto il suo debutto Delta di Michele Vannucci, film acquatico che non poteva quindi non attirare le attenzioni di Giove Pluvio. Opera seconda, dopo Il grande sogno, in attesa di approdare sui nostri schermi (è stato acquisito da Adler e programmato per febbraio), Delta ci porta in quella zona martoriata in cui il Po si frantuma prima di trovare il mare. Lì arriva un gruppo di pescatori rumeni, cacciati dal delta danubiano perché pescavano con le proibite scariche elettriche, un gruppo famigliare che comprende Elia, nativo della zona ma finito da tempo in Romania. La situazione per i pescatori italiani è già problematica, soprattutto per l’inquinamento industriale, e quando gli stranieri stravolgono acque e mercato ittico con i loro metodi da bracconieri, lo scontro è inevitabile. Scontro che ha riempito davvero le cronache, non solo locali. Già perché quella zona sembra essere un po’ abbandonata a se stessa. Un’associazione ecologica cerca di fare quel che può, i carabinieri cercano di evitare di entrare in gioco, e alla fine il racconto più che la strada del thriller prende una deriva quasi western, con i due protagonisti che si fronteggiano, entrambi sconfitti dalla vita, non esiste bene e male, sono guerre tra poveracci.

PROTAGONISTI assoluti della storia Luigi Lo Cascio, chiamato a dare coloriture dialettali altre rispetto alle sue origini, impegnato a comportarsi come paladino dei comportamenti corretti, e Alessandro Borghi, anche lui con sfumature delta-rumene, odiato straniero additato come origine di tutti i mali.
Quello di Vannucci è un film non del tutto riuscito, la seconda parte è un po’ troppo sopra le righe, ma molto curioso per il tentativo di raccontare storie del presente poco praticate dal nostro cinema. E per farlo, lui, bolognese, ha trascorso prima un lungo periodo sui luoghi che fanno da scenario (e ci sono immagini di rarissima suggestione e momenti di grande respiro cinematografico, compreso l’utilizzo di materiali di repertorio), per coglierne gli aspetti più autentici sia da un punto di vista umano che geografico. Forse per questo l’esasperazione dei nervi scoperti da film di genere suona un po’ stridente con un racconto che a tratti tocca invece corde delicate.