C’era una volta e c’è ancora Toza Vlajkovic, voce eroica e raffinata di Cubura, quartiere bohémien nel cuore di Belgrado. Pare di averla davanti agli occhi la cicala di Belgrado, orbo da un occhio dall’età di dieci anni: mentre giocava con delle granate lasciate dai nazisti, una era esplosa. Pare di ascoltarli i suoi racconti che sono quelli di un quartiere, una città, un Paese intero, passato dalla lotta per la liberazione contro i nazisti all’omologazione neoliberista che come un rullo compressore schiaccia diritti, culture, diversità. «Non è un posto per vivere, ma per mentire», racconta Vlajkovic, che si aggrappa al suo šatrovacki, lo slang di Belgrado, quasi volesse tenere in vita in questo modo la parte invisibile del quartiere.

Una rovina del futuro, una delle tante che costellano la capitale serba, raccontate da Marina Lalovic, giornalista e scrittrice, nel suo memoir La cicala di Belgrado (Bottega errante, pp. 183, euro 14). È un viaggio tra i luoghi della capitale poco prima della dissoluzione dell’ex Jugoslavia, quel mondo retto su «un equilibrio quasi perfetto e allo stesso tempo fragilissimo» che «abbiamo iniziato ad apprezzare soltanto quando era finito». Dai palazzotti enormi e solitari di Novi Beograd, quartiere simbolo dell’unità e della fratellanza, allo Studentski Kulturni Centar, il centro studentesco di cultura dove i gruppi emergenti facevano i loro esordi, divenuto negli anni Novanta il centro dell’economia nera.

ATTRAVERSO I SUOI RICORDI, Lalovic, che appartiene all’«ultima generazione di pionieri del maresciallo Tito», racconta il passaggio che avvenne tra uno Stato, la Jugoslavia, caratterizzato da una grande apertura, ad un mondo rovesciato dove «la logica della vita come la si era conosciuta fino ad allora, non aveva più alcun senso». In quel mondo rovesciato, Belgrado si riscopriva divisa tra pro e contro Milosevic. Persino la musica, l’abbigliamento, la camminata avevano un significato politico: da una parte il turbo-folk dei nazionalisti, dall’altra il rock’n’roll dell’opposizione. Ma Belgrado non era solo divisa. Belgrado era soprattutto indifferente a quanto accadeva nelle altre repubbliche. Risultato della macchina di propaganda del regime e della distruzione della cultura urbana come strumento di guerra, ma non solo. Perché, si chiede Lalovic, non ci furono manifestazioni più insistenti contro l’aggressione dei territori? Ed è una domanda aperta e irrisolta, che brucia di attualità.

È STATO COSÌ CHE, in un’atmosfera carnevalesca e surreale, si è arrivati ai bombardamenti della Nato del 1999, «ultimo capitolo di ciò che per noi era stato soltanto un surrogato della guerra civile», scrive Lalovic. Per le strade c’era l’entusiasmo di chi viveva quegli istanti come fossero gli ultimi, la voglia di preservare un barlume di normalità in mezzo al risuonare delle bombe, lo smarrimento di chi al conflitto non riusciva ad abituarsi. Alla guerra seguì la fuga, ma non l’oblio. Lalovic, che ha scelto di vivere e lavorare in Italia, sente ancora di viverci. «Non mi manca, scrive, perché Belgrado è con me».

* L’autrice ne discuterà oggi a Roma con Nadeesha Uyangoda nell’ambito di InQuiete (Cinema Avorio, ore 16.30). Modera Barbara Leda Kenny.