Un avvocato di grido con una moglie pittrice in cerca di fama, in un interno borghese. Amir posa per lei ispirata dal ritratto dello schiavo Juan de Pareja di Velazquez. Pochi elementi scenografici e qualche battuta connotano l’entourage newyorkese di questa coppia «mista», lui scuro di pelle e lei chiara e bionda. Quasi un prologo dell’imminente catastrofe personale, annunciata dal titolo. Si apre così Disgraced di Ayad Akhtar (nato negli Usa da genitori pachistani), pièce di successo nella Grande Mela e Premio Pulitzer alla drammaturgia 2013, al suo debutto in Italia (a India, fino al 18 marzo) per l’interesse di Jacopo Gassman che la traduce con qualche spigolosità linguistica e la dirige in maniera lineare e un poco ripetitiva.

Un’unica scena, la luminosa living room dell’appartamento, quasi un fortino. La velocità dei dialoghi e i conflitti che ne fuoriescono rendono il testo un accattivante specchio in cui l’opulenta fauna radical chic dell’Isola di Manhattan vi si riflette, restituendo l’immagine di un ghetto dorato in cui ciascuno è obbligato a recitare la sua parte per omologarsi al contesto culturale, anzi al multiculturalismo di facciata.

Basta una cena, infarcita di luoghi comuni, tra quattro amici – l’avvocato Amir (Hossein Taheri) con la consorte affascinata dalle geometrie dei dipinti arabi invitano il curatore d’arte ebreo (Francesco Villano) con la moglie avvocata afroamericana – per far emergere contraddizioni e fanatismi rimossi che sconquassano gli schemi della «tolleranza» reciproca. E alimentano quello scontro di civiltà innescato dall’11 settembre.
Laicità, successo e benessere materiale non sono serviti all’emigrato Amir per fare i conti con l’islam, e ora trova l’orgoglio del suo appartenere originario con rigurgiti xenofobi e maschilisti. Ne pagherà tutte le conseguenze.