In scena in questi giorni alla Scala un programma inedito e assai intelligente. Nei termini di una pedagogia dell’ascolto a cui spesso i teatri, per esigenze di cassetta, sono diventati sordi. Due brevissimi balletti e un’opera in un atto unico su musiche che percorrono a maglie larghe tutto l’Ottocento: Le Spectre de la rose, La rose malade, Cavalleria rusticana. Il primo è una coreografia ideata nel 1911 da Michel Fokine, poi eseguita da Vaslav Nijinski, a partire dalle musiche di Invitation à la valse (1841) di Hector Berlioz, versione orchestrata del «rondò brillante per piano» Aufforderung zum Tanz (Invito alla danza, 1819) di Carl Maria von Weber. Il secondo è una coreografia ideata nel 1973 da Roland Petit, ispirata a The Sick Rose, sezione del poemetto The Marriage of Heaven and Hell (1793) di William Blake, a partire dal quarto movimento («adagietto») della Quinta sinfonia (1904) di Gustav Mahler, famosissimo per essere stato usato da Luchino Visconti come nucleo della colonna sonora di Morte a Venezia (1971).

La terza è l’opera a tutti nota di Pietro Mascagni che debuttò nel 1890, in un panorama operistico che annaspava in uno sfinito epigonismo verdiano, e stregò il pubblico sostituendo le teste coronate del melodramma romantico con una classe proletaria dai sentimenti elementari e violenti espressi mediante l’emancipazione delle voci dalle finitezze del bel canto, la dissoluzione delle forme chiuse tradizionali, private di struttura strofica e composte di nuclei melodici che seguono lo svolgersi del dramma, e infine una carica sinfonica inedita che innerva tutta l’opera, perfino i recitativi. Lode al direttore Daniel Harding, che ci fa ripercorrere tutto il romanticismo letterario e musicale, dal pre (Blake, Weber) al post (Mann, Mahler, Mascagni), passando per Gautier e Berlioz, e, in un excursus di storia della passione (dai teneri fremiti della fanciulla di Gautier/Weber/Berlioz, alla consunzione amorosa di quella di Blake/Mahler, all’impeto autodistruttivo della paesana di Mascagni), crea cortocircuiti e tesse risonanze impreviste.

La direzione di Harding si adatta ai tre componimenti con una duttilità sorprendente: segue le linee diafane di Weber/Berlioz e la lettura scenica classica di Fokine, dando forma a un ritratto tenue ed estatico dell’adolescenza; asseconda le sinuosità malinconiche e a tratti nichiliste di Mahler e la lettura viscontiana di Petit, costruendo la deriva di un amore maturo inteso prima come malattia poi come morte; infine, in sintonia con l’allestimento crudo, contrastato, asciugato fino all’osso di Mario Martone (già visto nel 2011), impegna l’orchestra scaligera in un suono fortemente chiaroscurato, a volte corrusco a volte estatico, attraversando la partitura di Mascagni con tensione drammatica costante, anche nei momenti apparentemente più distesi, mentre il coro, nucleo morale dell’opera a metà strada tra tragedia greca e dramma borghese, riesce, sotto la direzione di Bruno Casoni, a coniugare magistralmente bellezza di canto e purezza di dizione.

Anche quella di Martone a suo modo è una coreografia, con movimenti e oggetti di scena sempre significanti, sviscerati, necessari: geniale l’assimilazione casa/chiesa, col coro sempre in scena e la posizione (di fronte o spalle al pubblico) a indicare inclusione/esclusione, tolleranza/condanna della protagonista. Dei cantanti si dica il meglio: Liudmyla Monastyrska scolpisce una Santuzza tragica e destinata a restare memorabile, perfettamente sfogata e padrona in tutti i registri della sua impervia tessitura, intensissima e allo stesso tempo misurata nell’interpretazione; il Turiddu di Jorge De León, nonostante suoni acuti un po’ schiacciati, è baldanzoso e insolente senza essere sguaiato.