La prima domanda che ti fai dopo averlo visto è: a chi serve? Ma, soprattutto, a che cosa serve? L’ambizione del programma Alla lavagna!, in onda su Raitre ogni sabato alle 20,20, sarebbe quello di mostrare come i bambini sono molto meno ingenui di quanto si pensi. Per dimostrarlo, ogni volta si mette un personaggio noto della politica, spettacolo o giornalismo di fronte a una classe di bambini fra i 9 e i 12 anni che, fra cattedra, banchi e lavagna, lo interrogano su temi di attualità o personali.

Sui 29 nomi noti entrati nella classe finora, solo 8 erano donne, ovvero un ospite su tre e già qui si cade male perché si dà ai telespettatori e ai ragazzi un’immagine della società che conta a prevalenza maschile. Per carità, è vero che nel parlamento italiano le donne sono sotto rappresentate, così come è vero che in Rai comandano i partiti, ma ogni tanto si potrebbe osare qualcosa di diverso e alternativo altrimenti viene il dubbio che lì dentro, come diceva Totò, sono tutti caporali.
Al di là dei numeri sul genere, ci sono alcuni aspetti che rendono Alla lavagna! irritante.

Gli alunni sembrano addomesticati e selezionati come in un casting per fare il bimbo/tivù e ricoprire dei ruoli. Ci sono il timido, il simpatico, l’impertinente, il curioso e, anche e ancora, il capoclasse. Montessori, aiuto. Patetico è poi il tentativo di portare l’ospite al livello dei ragazzini sottoponendolo a una prova a sorpresa, e così troviamo Gabanelli che balla (male), Paragone che suona la chitarra come se fosse agli scout, il ministro Toninelli che mima il titolo di un film, e meno male che lo assiste una bambina sennò nessuno indovinerebbe.

Ma i colpi al cuore arrivano spesso dalle parole degli adulti ospiti che, di fronte a domande semplici, o annaspano, o mostrano i loro limiti, o la loro cattiva coscienza. Il problema è che, mancando un vero contraddittorio, la risposta resta lì come una verità incontrovertibile. Quando chiesero a Salvini: «Molti dicono che lei è razzista. Lo pensa davvero?», lui rispose, ovviamente: «Noooo». Gli dovremmo credere? E i bambini che lo hanno sentito gli hanno creduto?

Prendiamo l’ultima ospite, Daniela Santanchè che, alla richiesta di esprimersi su che cos’è il denaro, ha risposto letteralmente così: «È l’unico vero strumento di libertà. Perché i soldi rendono liberi. Chi paga comanda. Pagare i propri conti vuol dire comandare». Quel messaggio, detto a dei bambini e su una rete del servizio nazionale, fa passare il concetto che chi ha i soldi ha il potere, che i soldi gli danno il diritto di fare quello che gli pare, trattare secondo il suo guizzo personale, e del momento, domestici, dipendenti, sottoposti, commessi, poveri, e poi ovviamente licenziare e dare ordini senza ascoltare.

Quando le donne si battono, per esempio, per avere lo stesso salario degli uomini, non lo fanno con l’idea che così comanderanno meglio e di più, ma perché il denaro, nella società capitalistica in cui viviamo, dà indipendenza e maggiori opportunità di essere autonome, di decidere per sé, che è una cosa molto diversa dalla libertà di comandare.
Se si crede e si insegna solo che il denaro è comando, bisogna anche tenere presente che al mondo ci sarà sempre qualcuno più ricco di te, e che quindi ogni ricco può diventare pecora di uno più ricco, servitore fra servi, pesce piccolo fra squali. È una visione apocalittica e arrogante dei rapporti fra le persone che, in quel modo, non si misurano sulle relazioni e gli affetti, ma su quanto è consistente il conto corrente. Vita grama, altro che libertà. Qualcun altro dovrebbe spiegarlo a quei bambini.

mariangela.mianiti@gmail.com