Topak Ev (la casa rotonda) è la prima opera che s’incontra visitando Women House. Quando comincia a lavorarci, nel 1972, Nil Yalter è la prima in Francia ad avventurarsi nel campo dell’architettura nomade, leggera e trasportabile, frequente nell’arte delle donne in quegli anni (la «triplice tenda» di Carla Accardi, in mostra, è del 1969-71), e ricreata oggi da artiste come Lucy Orta o Laure Tixier. Nata al Cairo nel 1938 da genitori turchi, cresciuta a Istanbul, dove si afferma giovanissima come pittrice, vive a Parigi dal 1965. Associando nella sua opera video, fotografie, disegni, pittura, testi, oggetti, performance, immagini di sintesi e 3D, Nil Yalter ha indagato temi sino ad allora inediti o poco trattati nell’arte, dalle condizioni degli immigrati a quelle delle donne curde, passando per il condizionamento di genere da oriente a occidente. La grande mostra Wack! Art and the Feminist Revolution ha rilanciato, nel 2007, l’interesse per il suo lavoro pionieristico, da allora moltiplica le mostre nei più importanti musei internazionali. L’abbiamo incontrata nel suo studio dietro gli Champs Elysées, alla vigilia della partenza per Istanbul, dove sta preparando una nuova personale che si terrà alla fine di gennaio, nel 2018.

Partiamo dall’inizio, dalla sua formazione…
L’arte fa parte della mia vita sin da bambina. A cinque anni ho cominciato a disegnare. Mia nonna mi raccontava le storie, come fumetti, disegnandomi delle vignette che mi faceva completare. Ho studiato in parallelo la musica e la danza, il che mi ha portata presto a considerare l’arte come un’attività globale, a molteplici media. Non ho fatto l’accademia, mi sono formata principalmente frequentando gli artisti turchi che avevano studiato a Parigi, e che mi hanno fatto conoscere il costruttivismo russo… Aver evitato l’Accademia di belle arti del tempo mi ha permesso un cammino libero e autonomo, dalla pittura astratta alle nuove tecnologie, di cui sono un’appassionata da quando ho imparato da sola a usare la Sony Portapak.

Può raccontarci la genesi di «Topak Ev» ?
Oggi penso che l’idea di lavorare sul nomadismo fosse anche legata al mio essere straniera e al bisogno di uno spazio tutto per me. Cominciavo allora a muovere i primi passi nell’arte contemporanea francese e dopo aver consultato un giovane etnologo del Musée de l’Homme, Bernard Dupaigne, specialista degli «habitat rotondi» fabbricati dalle donne, sono partita per Anatolia. Lì sono stata ospite delle donne di una comunità nomade. Al mio rientro a Parigi, ho creato la mia interpretazione delle tende che loro stesse costruivano. Per le pelli mi sono ispirata alle vesti delle sciamane dell’Asia centrale. Le iscrizioni le ho tratte da una leggenda raccontata da Yasar Kemal, uno dei più grandi scrittori turchi; e dai versi del poeta russo Chlebnikov. Avevo già la mania di scrivere testi nelle mie opere, ma non mi considero un’artista concettuale. Mi definisco, oggi come allora, un’artista marxista-femminista, perché reputo la lotta di classe, riferimento essenziale della mia visione del mondo. Suzanne Pagé che dirigeva l’Arc del Museo d’arte moderna cercava una giovane autrice, mai esposta prima in Francia. Venne nel mio minuscolo studio nel ’73. Vide il mio lavoro e disse: «Quest’anno a novembre». Montai la tenda direttamente nel museo. Fu un grande successo, anche se ci fu chi disse che il suo posto era al Musée de l’Homme, non in un luogo del contemporaneo.

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Donne, habitat precari, nomadismo, temi fondamentali della sua opera, appaiono insieme per la prima volta. Che ruolo ha avuto «Topak Ev» nel suo percorso ?
Mi ha fornito le chiavi per la fase successiva. Le donne della comunità nomade avevano tutte un membro della famiglia emigrato nelle grandi città turche, tedesche o francesi. È stato quindi naturale lavorare sulle problematiche dell’immigrazione e degli habitat provvisori correlati. A partire dagli «alloggi temporanei», vere e proprie bidonville, della banlieue parigina dove vivevano gli immigrati portoghesi e nord africani. Ho proseguito la mia ricerca a New York, a Istanbul e in diverse città francesi. Poi ho indagato sulle condizioni degli immigrati turchi in Francia. Spiegavo che ero un’artista e lasciavo loro la parola per raccontarmi come vivevano in questo paese. Prendevo fotografie dei luoghi e dei dettagli, raccogliendo dati e testimonianze che ricombinavo nel mio atelier. Ma quando il lavoro è stato esposto alla biennale di Parigi nel ’77, è stato criticato: troppo politico. «Chi vuole mettere le immagini e i disegni degli immigrati nel suo salotto?», mi si diceva. Ho continuato per la mia strada. E nel 1983 ho fatto una nuova mostra all’Arc sui lavoratori stranieri clandestini nell’industria della moda parigina, dal titolo L’esilio è un duro lavoro, tratto da una frase del poeta Nazim Hikmet. Considero femministe tutte queste opere, anche perché le immigrate stavano peggio di tutti ed erano doppiamente recluse: non uscivano mai e non parlavano francese. L’immigrazione economica e politica di cui mi sono occupata allora (ho anche lavorato con i curdi di origine turca obbligati a lasciare il paese) era diversa da quella attuale.

La sua scelta di associare diverse discipline e inventare nuove forme di azione è tipica dell’arte femminista degli anni 70, come lo spiega?
Allora ci prendevamo tutte le libertà perché non avevamo niente da perdere. Nessuno s’interessava veramente alla nostra arte. Le gallerie, i musei, le grandi mostre ospitavano pochissime donne, mi è perfino capitato di essere l’unica tra un centinaio di uomini. Conseguenza: facevamo quello che volevamo, senza chiedere il permesso, senza pressioni del mercato. Senza tabù. Per questo abbiamo subito esplorato nuovi campi. E gli uomini artisti ci sorvegliavano, prendevano ispirazione dai nostri lavori. Appena ho avuto in mano la Portapak, prestatami per filmare il pubblico e la sua interazione con Topak Ev, mi sono innamorata di questo strumento. L’ho subito adottato e l’anno successivo, era il 1974, ho partecipato alla grande mostra Art Confrontation all’Arc con il mio primo lavoro audiovisivo, la performance filmata La femme sans tête ou la danse du ventre.

Era consapevole allora di partecipare alla rivoluzione femminista dell’arte?
Non proprio. Ma quando ho girato questo primo video, non ho potuto fare a meno di notare le reazioni che suscitava. Più tardi, ho collaborato con altre artiste su diversi progetti di arte femminista, tanto a livello nazionale che internazionale. Nel 1978, insieme a Mary Beth Edelson, Ulrike Rosenbach e Miriam Sharon avevamo concepito un progetto che prevedeva che ognuna realizzasse un’abitazione provvisoria, dove avremmo vissuto in una lunga performance di quindici giorni. Il nostro obiettivo era installarci al Pompidou, ma ci hanno messe alla porta come indegne. Sembra incredibile raccontarlo oggi che le giovani artiste sono ascoltate, riconosciute, e considerate, grazie anche alle lotte che abbiamo fatto noi…

Con la sua prossima mostra in Turchia torna sul tema dell’habitat provvisorio a partire da un quartiere popolare di Istanbul in demolizione di cui ha raccolto la memoria. Quali sono i suoi rapporti con le artiste e gli artisti del suo paese?
Per motivi politici (ero entrata nel partito comunista turco clandestino, e avevo fondato qui un’associazione di sostegno) non sono potuta tornare nel mio paese dal 1980 al 1993, ero tagliata fuori dalla scena culturale di quegli anni. Ma oggi mi conoscono tutti e io conosco tutta la nuova generazione. Le giovani artiste di Istanbul sono particolarmente inventive. E c’è oggi a Istanbul una sinergia culturale che non vedo in nessun’altra città europea. Credo che questa esplosione sia una forma di resistenza alla regressione. Più l’islamizzazione avanza e più gli artisti resistono con creatività forte e originale. Sono convinta che sarà l’arte contemporanea a salvare la Turchia.