Il cinema contemporaneo e specialmente quello documentario si sono spesso focalizzati sul «problema» delle migrazioni, il più delle volte considerate dalla parte di chi è costretto a lasciare il proprio paese d’origine o da chi queste persone le accoglie o le rifiuta. A House in Ninh Hoa, è invece un interessante documentario che posa lo sguardo su coloro che hanno deciso, o sono stati costretti a farlo spinti dalle necessità, a restare. Il film ha debuttato nell’edizione dello scorso anno di Visions du Réel, quest’anno ha partecipato a numerosi festival ed è in questi giorni sulla rete televisiva franco-tedesca Arte.
Frutto della collaborazione fra il tedesco Philip Widmann, artista già autore di film, corti sperimentali e installazioni, e dal vietnamita Nguyen Phuong-Dan, uno dei membri del gruppo famigliare descritto nella pellicola, il documentario descrive la quotidianità di una famiglia vietnamita nella cittadina rurale di Ninh Hoa nel Vietnam meridionale. Composto da una serie di tableaux statici, gli interni della vecchia casa di famiglia, le strade circostanti, l’aia con le galline o scene in cui i membri della famiglia discutono quasi sottovoce, il lavoro procede lento ed avvolgente quasi come una marea.
Ellittica nel suo andamento, la storia è costruita inquadratura dopo inquadratura quasi per sottrazione, senza cioè presentare i vari membri della famiglia o senza dare informazioni dirette allo spettatore che si trova quindi a dover muoversi, disperso, in un territorio visivo straniero e straniante. Un po’ come il miglior Apichatpong Weerasethakul il film porta lo spettatore nel suo tempo immergendolo nella sua durata e questo grazie ad una serie di inquadrature fisse senza particolare importanza, non ci sono movimenti di camera (nemmeno uno!), quasi come i famosi pillow shots di Ozu. Frammento di paesaggio dopo frammento, e il pesaggio è in qualche modo il vero protagonista del film sia quello interno che quello esterno, solo dopo una trentina di minuti si comincia a delineare la storia familiare che ha attravesato la vecchia casa, una costellazione di eventi personali intrecciati con la storia con la S maiuscola. Nella seconda metà del secolo scorso un dei tre figli fu assegnato come diplomatico nell’ambasciata di Bonn ma a causa della guerra in Vietnam decise di rimanere in Europa con la sua famiglia, mentre un altro dei fratelli alla fine del conflitto non fu più ritrovato e l’ultimo fu spedito in un centro di riabilitazione sempre a guerra finita.

SPAZI VUOTI
La ricerca del fratello mai più trovato è una delle costanti del film, la sua assenza ed il tentativo, anche attaverso un medium, di individuare il punto in cui probabilmente fu ucciso, resta l’altra faccia della luna con cui la pellicola cerca di confrontarsi. Questo rapporto con chi non c’è più ed in generale con un senso di assenza e di vuoto quasi metafisico si riflette nelle immagini e nello stile del documentario, spazi vuoti e corridoi fiocamente illuminati, ma anche le poche figure umane che popolano la casa sembrano, per i loro movimenti, quasi presenze fantasmatiche. Le cene di famiglia e gli scambi di battute sono quasi sussurrati ed avvolti in un’aura di sospensione eterea che evocano un senso dell’effimero e di distanza. Se in un primo momento A House in Ninh Hoa potrebbe sembrare il tipico documentario che racconta una storia familiare, con l’andare dei minuti diventa chiaro come il film diventi anche un poema sullo scorrere del tempo e sulla morte, qui intesa come un oblio che quotidianamente ed in maniera dolce ed ineluttabile si spande poco a poco nelle vite di chi rimane su questa terra. Naturalmente tutto questo è possibile perché A House in Ninh Hoa è un documentario «costruito», la posizione della videocamera cioè è volutamente problematica, uno sguardo assente con cui i membri della famiglia non dialogano mai e a cui mai si rivolgono. Secondo le parole dello stesso regista il film è «veritiero più che vero» e proprio esplorando le varie possibili forme del documentario e mettendone in qualche modo in discussione i limiti i due autori riescono a creare un lavoro affascinante e dalla forza evocativa unica.

PHILIP WIDMANN
«Ciò che succede sullo schermo, dice Philip Widmann, non è forse completamente vero ma è veritiero e personalmente penso che questo sia più importante. La veridicità unisce fiction e non-fiction nel senso che entrambi mantengono la loro logica interna di cui hanno bisogno, a meno che non si tratti di conoscenza pubblica (storica), non importa che ciò di cui si sta parlando sia vero, basta che sia veritiero. Per i membri della famiglia naturalmente la loro verità è più iportante, ma per gli spettatori del film non è così (…) Il film è una messa in scena di alcuni elementi della vita quotidiana della famiglia caratterizzati da diversi discorsi come quello biografico, storico, riguardante l’identità, o ancora quello relativo alla comunità o alle relazioni personali. Agli occhi di chi ha scritto il film questi sono discorsi di una certa forza che raramente però si esternano nella vita quotidiana della famiglia e così attraverso il processo di scrittura abbiamo cercato di infondere tracce di questi discorsi nelle scene del nostro lavoro. Per poter lavorare assieme ai membri della famiglia, spiegavamo loro le scene, il loro presunto significato e ne discutevamo assieme, questo scambio di idee creava una trasparenza che assieme alla staticità della videocamera delineava di volta in volta abbastanza chiaramente ciò che sarebbe finito nel film e ciò che sarebbe stato eliminato, sia dal punto di vista di ciò che sarebbe finito nell’inquadratura che dal punto di vista dei dialoghi che alla fine sarebbero stati usati.  In confronto a forme del documentario che prediligono una videocamera mobile che segue le persone e che si affidano ad interviste, l’approccio formale da noi scelto ha dato, sia a chi stava dietro la macchina da presa che a chi stava davanti, un maggior senso di consapevolezza e controllo».