La «convenzione per la democrazia costituzionale» presentata ieri al Teatro Valle occupato di Roma da Stefano Rodotà, Gaetano Azzariti e Alberto Lucarelli è un gruppo di lavoro deliberato il 9 maggio scorso dalla «Costituente dei beni comuni», l’alleanza tra giuristi e studiosi con i movimenti che ha l’ obiettivo di elaborare un «codice dei beni comuni» e sostenere le lotte sociali e per i diritti fondamentali. Lo scopo della convenzione è offrire un punto di vista alternativo rispetto al processo di riforma costituzionale che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito «ineludibile» in un discorso tenuto ieri davanti ai magistrati di nuova nomina ricevuti al Quirinale.
I giuristi raccolti nella convenzione stabiliranno un collegamento con la rete delle associazioni, dei partiti e dei sindacati che il 2 giugno scorso a Bologna hanno risposto all’appello di «Libertà e Giustizia», guidata da Gustavo Zagrebelsky, per costruire insieme la rete dei «comitati per la difesa della costituzione». Tra le proposte di questo gruppo di lavoro c’è l’intenzione di presentare una disciplina sulle iniziative legislative popolari, una legge sul reddito di cittadinanza e un provvedimento sul diritto di accesso al web. Sulla riforma della legge elettorale, giudicata «inderogabile», i giuristi chiedono l’elaborazione di un sistema che garantisca la presenza di tutte le forze politiche fuori e dentro al parlamento. Infine, verrà elaborata una proposta sulla tutela dei diritti dei lavoratori precari e intermittenti.
Ciò che i giuristi della convenzione criticano della supercommissione parlamentare e della pletorica commissione dei 42 saggi che procederanno alla revisione della Costituzione è la scelta di un percorso estraneo alle procedure previste dall’articolo 138. Una decisione che ha esautorato il parlamento dalle sue funzioni e rischia di istituire un «potere costituente» concepito e regolato dal sistema costituito dei partiti. Si vuole così dare corpo alle «pulsioni presidenzialistiche» che da 35 anni cercano di riformare la seconda parte della Carta fondamentale, modificando la forma repubblicana dello Stato e accentrando il ruolo decisionale nella figura di un monarca repubblicano, non importa se sia il presidente della Repubblica, oppure il presidente del Consiglio. La direzione da prendere per affrontare e risolvere la crisi della rappresentanza politica dovrebbe essere opposta. Per questa ragione, i giuristi si impegneranno in una battaglia per la riqualificazione della «cultura costituzionale» e della «qualità della democrazia». La loro visione è ispirata ad un’idea di «diffusione dei poteri e di rafforzamento della partecipazione dei cittadini».
Nella crisi economica e politica in cui si trova il paese questi principi rischiano di andare perduti. «Quando si tocca la Costituzione – ha detto Gaetano Azzariti, docente di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma – si toccano i principi supremi e la revisione di cui si parla è affrettata e per certi versi bizzarra. Non può essere senz’altro giustificata dalle esigenze di governabilità di cui parlano i partiti». L’introduzione del presidenzialismo nel nostro paese auspicata dal «mainstream», così è stata definita la bolla mediatica che sostiene il governo delle larghe intese, potrebbe fare gli interessi solo di questa oligarchia asserragliata nel «Palazzo». Stefano Rodotà non è stato tenero nei confronti della commissione dei 42 «saggi». La sua è anche un’obiezione di metodo. «Per loro – si domanda – sarà valido il vincolo della segretezza? Ma questo è impensabile oggi. Ricordo che durante la discussione sulla Carta di Nizza le audizioni erano pubbliche». Poi, rispondendo a una domanda sul ruolo svolto in queste difficili settimane dal Presidente della Repubblica Napolitano, ha detto: «Napolitano è stato coinvolto in una crisi istituzionale gravissima. Questa crisi è stata provocata dai partiti che sono responsabili di una rottura nel percorso costituzionale previsto nell’elezione del presidente della repubblica. Quando hanno dichiarato la loro impotenza dopo la quinta votazione hanno creato una situazione ingestibile. Vedremo quali saranno le mosse di Napolitano da questo momento in poi».
Alberto Lucarelli, già tra gli estensori dei quesiti referendari sull’acqua e assessore ai beni comuni nella giunta De Magistris a Napoli, parla di una «trasformazione di fatto della forma di governo da parlamentare a presidenzialistica» in atto da quando non è stato rispettato l’orientamento popolare espresso nel referendum sull’acqua del 2011. Questa «deriva» ha assunto contorni ancora più inquietanti nel dicembre del 2012, al momento dello scioglimento delle camere. «È stato un atto grave – questo è il giudizio di Lucarelli – perché ha impedito di indire i referendum sull’articolo 18, modificato dalla riforma Fornero, e sull’articolo 8. Bastava aspettare pochi giorni per dare un valore alle centinaia di migliaia di firme raccolte tra i cittadini».