L’ultima carovana migrante dell’era Trump è stata fermata ancora prima di varcare la frontiera messicana e la maggior parte dei suoi componenti è stata respinta dal governo guatemalteco.

La politica statunitense, a partire dalle ultime elezioni mid-term del 2018, è stata quella di spostare le barriere migratorie sempre più a sud, forzando il Messico e i paesi centroamericani ad assumersi la responsabilità di detenere e deportare i migranti prima che possano avvicinarsi al confine statunitense.

Un report del Senato ha documentato l’utilizzo da parte della polizia di frontiera statunitense di mezzi di trasporto non identificati per detenere e deportare migranti honduregni dal territorio guatemalteco durante la carovana di gennaio di quest’anno. Una procedura utilizzata qualche mese più tardi anche a Portland per reprimere i manifestanti.

Queste violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo Trump si aggiungono alla separazione dei minori dalle proprie famiglie imposta dalle autorità di frontiera, famiglie che la burocrazia statunitense non è più in grado di far ricongiungere con i propri figli, e alle denunce di sterilizzazione forzata tramite rimozione dell’utero applicata alle migranti nei centri di detenzione degli Stati uniti.

Negli ultimi due anni le possibilità di ricevere l’asilo politico attraverso la frontiera terrestre con il Messico sono andate via via affievolendosi fino a di fatto annullarsi durante l’emergenza sanitaria del Covid-19.

Il Messico di Lopéz-Obrador, che con Trump ha ottenuto il ruolo di principale socio commerciale degli Stati uniti, ha accettato di implementare le nuove politiche migratorie trasformandosi da paese di transito a meta finale forzata per decine di migliaia di persone.

Molte di queste vivono da più di un anno in una tendopoli a Matamoros, alla frontiera tra lo Stato messicano di Tamaulipas e il Texas, mentre a Tijuana, la città unita dal muro con San Diego (California), le comunità di migranti hanno trovato rifugio in un quartiere autocostruito nella periferia della metropoli.

Nei giorni precedenti alle elezioni presidenziali statunitensi, alcuni migranti ospiti dei centri di accoglienza di Tijuana e attivisti locali hanno organizzato una protesta richiedendo tra le altre cose la rimozione del protocollo MPP, anche conosciuto come «Rimani in Messico», per cui i richiedenti asilo in attesa di risposta vengono rispediti in Messico, un paese non considerato sicuro, ignorando le convenzioni internazionali per i diritti umani.

Nel suo programma elettorale, il neo-eletto Biden indica l’abrogazione delle leggi in ambito migratorio emesse da Trump, tra cui l’MPP, come una delle azioni da compiere nei primi 100 giorni di mandato.

A questo si aggiunge la sospensione delle deportazioni per i veterani e il ripristino del DACA, che permette ai «Dreamers», i migranti senza documenti entrati negli Stati uniti da minorenni, di lavorare ed evitare le deportazioni; a questi verrà inoltre dato l’accesso ai percorsi per ottenere la cittadinanza.

Secondo Federica, cooperante della Casa del Migrante Scalabrini di Tijuana, tra la popolazione migrante degli albergues continua a regnare la disillusione più che l’entusiasmo: «Il confine resterà chiuso per altri cinque mesi, qui arrivano sempre meno persone perché, da quello che ci raccontano, è diventato sempre più difficile ricevere il lasciapassare delle autorità messicane e molti migranti rimangono bloccati alla frontiera sud a Tapachula».

Tra gli ospiti della Casa del Migrante c’è Bernardo, messicano che ha vissuto negli Stati uniti da quando aveva 18 anni. Nel 2008, quando stava per insediarsi il primo governo Obama, è stato fermato per un reato minore e lo hanno deportato con un atto della Corte.

È rientrato nel paese pagando un coyote e si è costruito una famiglia con la sua compagna e un figlio che ora lo aspettano dall’altro lato del muro. Nel 2019 ICE è venuto a cercarlo e lo ha deportato una seconda volta, per questo ora si trova bloccato in Messico da quasi un anno.

La sua storia attraversa e riflette il cambio di politiche migratorie avvenuto a livello federale, la condizione tutt’altro che favorevole ai diritti delle persone migranti è andata deteriorandosi ulteriormente.

Biden è stato vicepresidente di Obama durante gli otto anni in cui le deportazioni di migranti sono state numericamente superiori, in media, rispetto ai quattro anni del mandato di Trump. La sua fama in America Latina è legata più all’ingerenza e alla militarizzazione che alla difesa dei diritti umani.

Nonostante ciò, persone come Moisés, ospite della Casa del Migrante proveniente dal Ghana e con il sogno di costruirsi una vita negli Stati uniti, hanno festeggiato la notizia della vittoria del Partito democratico.

Sul suo telefono Moises ha la foto della coppia Biden-Harris e crede che lentamente le cose inizieranno a cambiare per le persone in cammino come lui e che finalmente potrà passare dall’altro lato della frontiera.

La speranza di molti è che il nuovo leader statunitense, nonostante in passato sia stato fautore di politiche conservatrici e autoritarie, mantenga le sue promesse elettorali sull’onda del supporto decisivo ottenuto proprio dalle contee a maggior concentrazione di popolazione migrante del paese.

Questo seppur lieve cambio di rotta non sarà possibile senza l’impegno continuo di attiviste e militanti nell’opporsi alle violazioni dei diritti umani commesse dal Department of Homeland Security e senza l’abolizione di ICE, la polizia migratoria.