A guardarla bene, la situazione delle fonti fossili a livello globale appare incredibile. Nonostante un processo di decarbonizzazione in atto, l’urgenza di dare seguito all’accordo di Parigi e l’osservazione sullo stato di salute del pianeta sempre più critico, il rapporto Oil 2021 della Iea (International Energy Agency) prevede che la domanda petrolifera, se non si attueranno radicali politiche di limitazione, crescerà ancora da qui al 2026, superando il livello psicologico dei 100 milioni di barili al giorno.

Ciò grazie al grande impegno dei paesi asiatici. Politiche che dovrebbero regolare senza tentennamenti i settori di consumo delle fonti fossili: il passaggio alle auto elettriche, il miglioramento dell’efficienza dei veicoli in termini di consumo di carburante, lo sviluppo di tecnologie ibride e tecnologie pulite in tutti i settori della raffinazione del petrolio. Anche Irena (International Renewable Energy Agency), nel World Energy Transitions Outlook 2021, nonostante il suo cauto ottimismo prevede che nello scenario 1,5 °C la produzione globale di petrolio sarà crollata del’85% rispetto a oggi ma solo nel 2050, e che il picco del gas invece non è ancora inspiegabilmente arrivato.

Il tema della sostituzione definitiva della fonte fossile passa per due snodi critici: da un lato una domanda di petrolio pericolosamente trainata più dalla petrolchimica che dalle automobili, dall’altro il costante utilizzo di gas naturale destinato, secondo i desiderata di molti player dell’energia, a svolgere un ruolo centrale nella transizione energetica. Petrolchimica significa produzione di plastiche e fertilizzanti, di gomme sintetiche per pneumatici, detersivi, abbigliamento, apparecchi digitali e medici, e rappresenta un settore che non può essere disgiunto da quello dei consumi di energia, perchè, come questo, strettamente legato ad equilibri geopolitici e di mercato.

La domanda di plastica, in particolare, è raddoppiata negli ultimi venti anni, superando quella di alluminio, acciaio, cemento, con quasi 350 milioni di tonnellate all’anno, metà delle quali prodotte in Asia. L’aumento dei prodotti petrolchimici, plastica su tutti, riguarda anche lo sviluppo di tecnologie legate all’energia rinnovabile e all’efficienza energetica, in una sorta di retroazione negativa (pannelli solari, turbine eoliche, batterie, isolanti termici e veicoli elettrici). La molteplicità dei prodotti del settore petrolchimico rende difficile l’adozione di azioni efficaci verso la sua decarbonizzazione, anche se le soluzioni ci sarebbero (leggi bioplastica).

Nonostante sia ancora il principale settore di impiego del petrolio, il trasporto paradossalmente risulta quello più facilmente adattabile alle politiche green, a partire dalle nuove tecnologie verdi per la produzione di carburanti. Sviluppare biofuels da residui agricoli e forestali e da scarti urbani e industriali può essere un esempio virtuoso di riduzione dello spreco e di attuazione di esempi di economia circolare. Oggi la diffusione di biocarburanti è lanciata verso una competitività sempre maggiore. Ma per determinare la completa sostituzione del petrolio nella domanda dei trasporti ci si affida soprattutto alla regolamentazione e gli obiettivi della politica, come la Direttiva 2009/28/CE della Comunità Europea. Che deve però subire una forte accelerazione.

Anche in Italia, come nel resto dell’Europa, si parla dello stop alla vendita delle auto benzina, diesel e ibride non plug-in da gennaio 2035. Alcuni Paesi, come Norvegia, Olanda Svezia, Danimarca e Germania stanno valutando di bandire la vendita dei motori termici già dal 2030. E attenzione, perché la Germania è il primo mercato comunitario per numero di immatricolazioni e leader dell’industria automotive mondiale, con colossi come Volkswagen, Mercedes e Bmw che sembrano decisi ad intraprendere velocemente la via del full electric. Ma anche oltre i confini dell’Europa sono numerosi i Paesi in cui si stanno valutando azioni simili. Il primo per volumi e per interessi strategici è la Cina: il più grande mercato al mondo vuole dare l’esempio, seguito anche da India, Brasile e Israele e, con qualche mal di pancia, dagli Usa.

Occuparsi della urgente eliminazione del gas risulta meno agevole, soprattutto per il ruolo capillare che tale fonte svolge, in particolare nel nostro Paese. Quasi totalmente importato dall’estero (94%), la fattura energetica 2020 del gas dell’Italia è pari a 70 miliardi di metri cubi all’anno (con un trend in lenta diminuzione progressiva) e circa 300 miliardi di euro. Questo pone in primo piano la logica geopolitica internazionale che riguarda accordi pluriannuali, con la Russia che è la prima fonte di provenienza, l’Algeria, il Nord Europa e la Libia. I settori di consumo sono quelli della produzione termoelettrica (35%), quello industriale (19%), e quello del dettaglio residenziale (44%). I primi due devono essere regolati con l’individuazione degli obiettivi del nuovo Pniec al 2030 (bisogna essere radicali: il Coordinamento Free dice 70% di fonti rinnovabili elettriche sul totale dei consumi finali e 50% delle rinnovabili termiche), il terzo con la definizione di un processo strutturato di elettrificazione dei fabbisogni residenziali, incluso il riscaldamento.

Ma sarà possibile attuare politiche così decisamente anti-fossili? Tutti parlano di una loro eliminazione definitiva al 2050, almeno in Europa, ma la realtà è un’altra, come evidenziato dal rapporto pubblicato dal programma ambientale delle Nazioni Unite, l’Unep. Il Production Gap Report 2020 indica come i Paesi dovrebbero tagliare del 6% ogni anno la produzione globale di combustibili fossili, se volessero realizzare l’obiettivo fissato dagli accordi di Parigi. La produzione mondiale di carbone, petrolio e gas dovrebbe diminuire, rispettivamente, dell’11%, 4% e 3% ogni anno. Invece, come visto, queste produzioni continuano ad aumentare con il risultato che con questo trend nel 2030 il livello della produzione di carbone, petrolio e gas nel mondo sarà oltre il doppio rispetto a quello consentito dall’accordo di Parigi. Risultato che è d’altra parte in linea con i finanziamenti destinati dai Paesi del G20, nei rispettivi piani di rilancio economico post-Covid, a settori industriali connessi all’estrazione e all’utilizzo di fonti fossili, e pari a quasi il doppio di quanto dedicato alle tecnologie pulite. Invece l’urgenza imporrebbe alcune scelte immediate, semplici ma perentorie: cancellazione di tutti i sussidi alle fossili entro il 2030, se non prima, rivedere la tassazione sui combustibili fossili e legare la fiscalità alle emissioni di gas serra in ogni passaggio fiscale (dalla tassa di proprietà per gli autoveicoli, all’acquisto di combustibili per il trasporto e di fonti per il riscaldamento). E’ giunta l’ora di applicare senza infingimenti una carbon tax.

Si è visto negli incontri del G20 di questi giorni che l’Europa spinge per fissare una soglia minima di prezzo mondiale sulle emissioni di anidride carbonica. Gli Usa propongono invece incentivi e sussidi per ridurre l’inquinamento. La discussione si arena come sempre nella ricerca di un meccanismo di compensazione del prezzo delle emissioni alla frontiera, per non penalizzare le imprese europee rispetto al mercato extra comunitario, ed evitare lo spostamento della produzione nei Paesi che permettono processi produttivi inquinanti. Ostacolando, di fatto, la lotta alla riduzione dei gas serra. Si è in attesa in questi giorni del pacchetto clima Fit for 55, che tra le azioni per tagliare le emissioni del 55% dovrebbe includere una proposta operativa sulla carbon tax.

Ora serve un segnale forte, perché il prezzo medio nel mondo di 3 dollari a tonnellata di CO2 emessa grida vendetta. Occorre un riconoscimento ufficiale e condiviso del ruolo del carbon pricing nella lotta al cambiamento climatico.

* Prorettore alla Sostenibilità, Sapienza Università di Roma