Il rapporto fra Capitale e Stato è un rapporto, da sempre, problematico. E un buon modo per iniziare a metterlo a fuoco, può essere quello di partire dalle celebrazioni mancate del 150° anniversario della cosiddetta Breccia. Non possiamo non sottolineare, infatti, il senso politico di un atto mancato, segnalando, più in generale, i rischi di un disinteresse diffuso sul significato della scelta di Roma come capitale d’Italia. Perché se la memoria nazionale si configura come effetto di un processo selettivo di date ed eventi ritenuti significativi – ed è un processo necessario per la formazione dell’identità di qualsiasi comunità –  le ricorrenze andrebbero onorate, quanto meno per riflettere in modo critico sulla propria storia, attraverso un’analisi obiettiva delle scelte di eventi e di protagonisti del passato: senza questa volontà pubblica interpretativa diventa problematico indicare linee e progetti che consentano di costruire un futuro, per quanto possibile, condiviso.

La scelta istituzionale di non celebrare questo anniversario, se non in forma del tutto laterale[1], ha un significato simbolico, prima che politico. E non stupisce che la città appaia – o meglio venga continuamente rappresentata – come una città smarrita, incapace di incarnare il senso profondo del suo ruolo nel contesto nazionale e in quello mediterraneo. Roma subisce, infatti, la crisi dello Stato, della sua difficile trasformazione, sempre più in scacco di tensioni profonde, a tratti disgregatrici; uno Stato che finché non riuscirà a trovare una nuova forma e un nuovo equilibrio, difficilmente sarà in grado di valorizzare il ruolo e la funzione della sua città capitale.

Ben prima dell’emergenza Covid, le celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale furono per lo più ritenute un’occasione di riflessione da consegnare agli storici e agli urbanisti, che iniziarono infatti a progettare una serie di eventi, manifestazioni e convegni per affrontare, quanto meno dal punto di vista della ricerca scientifica, le questioni legate alla fine del potere temporale dei papi e alla successiva scelta di Roma come capitale del Regno. Ma a causa d’imperscrutabili scelte del prefetto Francesco Paolo Tronca, Commissario governativo dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano – il cui Statuto ha come fine quello di “promuovere e facilitare gli studi sulla storia d’Italia dal periodo preparatorio dell’Unità e dell’indipendenza” – la progettazione delle attività messe a punto dal Comitato scientifico venne poi annullata, tra lo sconcerto degli addetti ai lavori, senza essere sostituita da altre occasioni istituzionali di confronto storico, civile, politico, simbolico. Nello stesso tempo, era stato chiuso, per altre ragioni, anche il Vittoriano, vale a dire il museo che simbolicamente incarna questa storia. Un duplice atto simbolico, quindi: per un verso, l’Istituto è stato esautorato dalla progettazione delle celebrazioni e, per un altro, l’accesso al polo museale è stato bloccato per “per esigenze di riallestimento funzionale”.

Sconcerto e amarezza, dunque, giacché questa celebrazione poteva invece costituire un’occasione storica importante per riflettere pubblicamente sul rapporto fra Capitale e Stato, per affrontarne i nodi irrisolti e per iniziare finalmente a cambiare l’incapacità delle istituzioni a comprendere l’identità profonda di questa città: da sempre spazio multiverso e cosmopolita, nonché centro di ricerca scientifica. Senza una discussione pubblica di questo tipo, è difficile immaginarne un rilancio autentico. Eppure, basterebbe leggere con occhio più avveduto la storia delle relazioni di Roma in Età moderna, per rendersi conto che la città è stata riconosciuta nella sua grandezza solo quando ha saputo investire in cultura. Bisognerebbe ricordare, ad esempio, il valore delle sinergie – certo contraddittorie, talora soffocanti, ma comunque autonome e vitali – attivatesi tra le corti pontificie, aristocratiche, cardinalizie nella configurazione di Roma come meta imprescindibile del Grand Tour. Le celebrazioni del 150° potevano rappresentare l’occasione per riattivare sinergie, in scala internazionale, per ripensare la città, progettando tavoli e ricerche a cui invitare storici, urbanisti, architetti, sociologi, antropologi, letterati, scienziati, demografi, geografi urbani; italiani e stranieri.

Poteva insomma l’occasione per discutere due questioni dirimenti. La prima: in un’età di globalizzazione sempre più omologante, in che modo il patrimonio urbano di Roma può contribuire a un ripensamento della sua fisionomia di grande capitale mondiale? La seconda: quali possono essere le forze sociali e le immagini simboliche da valorizzare per restituire alla città la sua funzione di polo attrattivo di un’immigrazione intellettuale qualificata, così come è stato per secoli, soprattutto tra il Cinquecento e il Settecento, quando pensare a Roma significava pensare alla “plaza del mundo”? Città cosmopolita e internazionale da sempre, secondo quanto annotava Michel de Montaigne nel XVI secolo (“Roma è la città dal carattere più cosmopolita del mondo, e quella dove meno si bada se uno è straniero e di nazione diversa”[2]), Roma non perse questi suoi tratti caratteristici neppure nell’Ottocento, contrariamente a quanto sostiene una vulgata lenta a morire.

Si sarebbe potuto anche iniziare a discutere, proprio in occasione dei 150 anni di storia della capitale d’Italia, su come dotare la città di un proprio museo, di un Urban center capace di raccontare la sua storia millenaria; un polo espositivo multimediale, assimilabile a quelli delle principali capitali del mondo, dovrebbe e potrebbe favorire la conoscenza dello sviluppo urbanistico e demografico della città, peraltro mettendo in debito rilievo la sempre numerosa presenza di stranieri, di nationes, di viaggiatori e diplomatici, che tanto ha influito sulla sua evoluzione, sulla sua lingua, sulla sua architettura, sulla gastronomia. Peraltro, fu proprio dall’indomani del 1870, che Roma prese a ospitare una tale mole di enti e istituti culturali stranieri da renderla, ancora oggi, un unicum al mondo. Questa ricchezza non sembra essere però essere né compresa né valorizzata appieno dalle istituzioni, a vari livelli: al di là di singole iniziative, nel complesso mancano infatti stabili rapporti di sinergia con il Comune, con le università, pubbliche e private, così come con gli spazi museali della città.

Purtroppo, le celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale sono andate in tutt’altro modo: di fatto, con pochissime manifestazioni pubbliche di rilievo (pensiamo al concerto tenutosi al Teatro dell’Opera sotto la direzione di Riccardo Muti) in cui lo Stato si sia fatto promotore del compito di onorare la storia di una città millenaria che, fino a prova contraria, da 150 anni è anche la sua Capitale.

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[1]In occasione dei 150° anni di Roma Capitale, la Fondazione Camillo Caetani, in collaborazione con la Biblioteca di storia moderna e contemporanea, con il Centro Studi Roma ‘800, con l’Istituto Sturzo, con la Società Romana di Storia Patria e con il patrocinio dell’Università degli studi di Roma «Tor Vergata», ha organizzato il convegno: Roma capitale: la città laica, la città religiosa (1870 – 1915), Roma, Campidoglio, 21 – 24 settembre 2020

[2] Montaigne, Viaggio in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 211.

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L’estratto che presentiamo (a cura di Daniele Balicco (coodinatore), Cecilia Canziani, Andrea D’ammando, Marina Formica, Maria Nicolaci, Luca Rosini, Ludovica Tranquilli) fa parte di un dossier sui nodi e le reti della conoscenza e della creatività nella città di Roma che verrà presentato mercoledì 20 maggio alle 17 in diretta facebook