Il ritorno alla forma canzone era inevitabile per Nicola Piovani che quarant’anni dopo i lavori realizzati con Fabrizio De Andrè (Non al denaro, 1971, Storia di un impiegato, 1973) e molte colonne sonore composte, non aveva mai in realtà smesso di scrivere melodie che solo per comodità vengono catalogate come musiche da film. Cantabile (Sony),in qualche modo è la chiusura di un cerchio, la dimostrazione di come temi melodici possono brillare di luce propria, magari riletti e rimessi a nuovo dalla voce di un cantante. Qui sono in tanti, De Gregori, Mannoia, Morandi, Noa, Giorgia, Servillo a raccontare sulle note scritte dal maestro capitolino le storie scritte da Vincenzo Cerami, Luigi Pirandello lo stesso Piovani e la cantante israeliana Noa. Nicola Piovani sarà l’ospite d’eccezione al concerto del 1 maggio a piazza San Giovanni a Roma.

«Cantabile» rappresenta un ritorno a un antico amore. L’impressione è che nel suo modo di comporre, si tratti di colonne sonore, commedie muicali o singoli temi, la struttura canzone faccia spesso capolino…

Quando scrivevo musica per De Andrè, e lo facevo su commissione, il progetto era suo, era lui l’autore, il direttore artistico. Il mio sforzo creativo stava nell’entrare meglio possibile, e questo mi ha aiutato molto a sondare linguaggi che magari non avrei mai incontrato. Cantabile, invece, parte da un’idea ambiziosa che mi appartiene e contiene – da Benigni a Cerami, da Sollima a Bosso – un’operina sistematicamente multiforme. Un tentativo di approccio alla forma canzone, un genere poetico che da sempre amo e da sempre temo. Non è per niente facile scrivere una canzone che abbia un senso, ci si riesce una volta ogni tanto.

Sorprende l’approccio degli artisti coinvolti nel progetto. Due nomi su tutti: Fiorella Mannoia abbandona un rigore formale e si abbandona a un amplesso erotico dove la sua voce si misura su tonalità diverse. O Jovanotti come non se lo si sarebbe mai immaginato, in questo pezzo dalla cadenza honky tonk…

Fiorella Mannoia era molto felice, mi ha detto, di tuffarsi nella mia proposta, in un canto un po’ lontano dai suoi registri abituali. In realtà lei ha molte più corde nel suo campo canoro: questa del mio tango è una di quelle che, diciamo, tiene più nascosta. La libertà, in un progetto come questo si pratica in due: il cantante e l’autore devono, per quel breve tratto, viaggiare insieme. Le mie indicazioni, in sala di registrazione, potevano essere utili agli artisti che, singolarmente, non conoscevano l’intero progetto.

Il sodalizio con Benigni inizia, cinematograficamente parlando, con «La vita è bella» successo coronato dall’Oscar. Era inevitabile forse riprenderlo…

Con Roberto il primo lavoro è stato nel ’95, Tutto Benigni nel quale debuttava la canzone Quanto t’ho amato. Roberto ha scritto la versione italiana del tema de La vita è bella, e mi ha detto: ’Se non trovi nessuno, la canto io’. E l’ha cantata magnificamente…

Fra i suoi lavori anche un excursus nel teatro leggero per I sette re di Roma con Magni e Garinei. Da quel titolo Gigi Proietti riprende nel disco la macchietta Gasparì à Paris. Come si lavora su una commedia musicale?

La commedia musicale è un incrocio fra il lavoro sulla canzone e il lavoro sulla drammaturgia che si fa nel cinema. Ci vuole molta pazienza e soprattutto un entusiasmo lucido, difficile da calibrare.

Il 1 maggio lei parteciperà al Concerto di piazza San Giovanni. Mai come quest’anno la crisi è così palpabile, resa ancora più drammatica dal precipitare degli eventi politici di questi giorni. Si festeggia la festa del lavoro ma impietosamente i dati parlano di un giovane senza impiego su quattro in Europa. Quale il ruolo del musicista in una situazione così complessa?

La crisi è italiana, ma anche europea e planetaria. Un sistema economico di sviluppo è in crisi esta fallendo davanti ai nostri occhi. I modelli alternativi messi in campo dalle opposizioni storiche sono falliti prima di nascere. Ogni volta che in Italia sembra che si stia per voltare pagina, alla fine arriva il colpo e si volta pagina sì ma all’indietro. Il capogruppo alla camera del maggior movimento di opposizione ci dice che «Il fascismo in fondo, non era poi così male prima delle degenerazioni». E noi piano piano rischiamo di abituarci a tutto. Stiamo giorni a dibattere su una trasmissione televisiva dove l’aspirante capo di governo spolvera la sedia del giornalista d’opposizione pensando di essere spiritoso, e c’è qualcuno che lo piglia sul serio… E se provi a dire queste cose le risposte che ti arrivano cominciano sempre con la frase madre di tutte le sciocchezze: «Qui il discorso è un altro»!

Qualche anno fa il ministro Tremonti affermava che con «la cultura non si mangia», per giustificare i tagli che hanno messo in ginocchio la cultura e lo spettacolo in Italia. Anche il governo dei cosiddetti tecnici non ha fatto molto di meglio. Eppure Vendola in Puglia dimostrano che invece dalla cultura si può anche ripartire…

Tremonti forse intendeva dire che la cultura lui non ci mangia abbastanza, forse perché ne mastica poco. Berlusconi disse di non avere tempo per leggere libri perché «lui lavora». Brunetta ha insultato la nostra cultura, dando del parassita a chi opera nel mondo della lirica. Partendo da queste perle, si capisce perché si siano operati tagli sciagurati e inutili. Vorrei ricordare poi che la sinistra si è interessata alla cultura soprattutto come evento mediatico, e non come pane quotidiano di un territorio. Beh, è difficile essere ottimisti. Nei recenti programmi elettorali di tutti i partiti e movimenti, le parole cultura, arte, spettacolo mi sembra che siano sgradevoli intruse. Ma i grandi statisti del passato, europei o americani, sapevano che senza lo sviluppo culturale di un paese, non c’è sviluppo tout court. Lo sapeva bene Roosevelt. E non vorrei sbagliare, mi sembra che lo sappia anche Nichi Vendola. O almeno ci spero.