Anche un canzone può accompagnare la giornata della memoria. Il tema dell’Olocausto non compare spesso nei testi dei brani musicali del dopoguerra, neppure in quelli degli artisti più impegnati. Un misto di pudore e di inadeguatezza ha forse frenato molti autori nell’affrontare un dramma troppo grande per i limiti imposti dalla struttura di un pezzo musicale cantato. Tuttavia le eccezioni esistono. Alcuni interpreti hanno provato a occuparsi del tema, spesso in modo originale e, in alcuni casi, l’hanno fatto perché guidati da esperienze personali che li avvicinavano alla più grande tragedia del XX secolo.

«ILSA KOCH» (WOODY GUTHRIE)

Scritta dal cantastorie Usa nel 1948, il brano Ilsa Koch è forse la prima vera canzone del dopoguerra a parlare dell’Olocausto. La composizione rimase tuttavia inedita ed è stata riportata solo di recente alla luce e incisa, su iniziativa della figlia di Guthrie, Nora, dai Klezmatics di New York, folk band che rilegge la tradizione della musica ebraica kletzmer.
Il brano è un crudo resoconto degli orrori dei campi di sterminio con al centro la figura spaventosa di Ilse Koch, la strega di Buchenwald. Moglie del comandante delle SS Karl Otto Koch, responsabile dei campi di Buchenwald e Sachsenhausen, Ilse Koch si rese protagonista di torture e atti di crudeltà contro gli internati. Divenne tristemente nota per l’atroce collezione di paralumi realizzati con i tatuaggi prelevati dalla pelle degli internati uccisi. Nello stile di Guthrie la canzone nasce, però, non solo dalla tristezza ma anche dalla rabbia. Nel 1948, infatti, Koch fu scarcerata. Il cantante temeva che l’oblio cancellasse i crimini dei nazisti. «Vedo il fumo delle ciminiere, vedo le ceneri ammassate, vedo le ossa ammucchiate (…) Ilsa Koch è stata imprigionata. Ilsa Koch è ora libera. Devo zittire la mia canzone. Vedo tornare il super-uomo». La rabbia di Guthrie non fu la sola voce di sdegno. Koch venne arrestata nuovamente, ri-processata e condannata all’ergastolo. Si impiccò in cella nel 1967. Woody Guthrie dopo la guerra scrisse diversi brani ispirati alla cultura ebraica, in parte frutto del matrimonio con Marjorie Greenblatt, ebrea newyorkese, e dell’influenza della madre di lei, Aliza Greenblatt, celebre poetessa Yiddish.

«WITH GOD ON OUR SIDE» (BOB DYLAN)

Il rapporto del cantante-premio Nobel con le sue radici ebraiche è stato sempre, a dir poco, controverso. Nato da una famiglia ebraica di Duluth nel Minnesota, l’allora Robert Allen Zimmerman celebrò regolarmente il suo bar mitzvah. Ma non accettò mai di identificarsi nettamente e pubblicamente con la religione ebraica. Al contrario sposò apertamente il cristianesimo con una conversione immortalata in una serie di tre album. Salvo poi tornare, a quanto pare, all’ebraismo. Ma la sua identità traspare assai spesso nella sua opera. Dalle citazioni bibliche all’odio nei confronti del razzismo alla denuncia dei movimenti di estrema destra.
Nel 1983 Dylan fu anche autore di una difesa dello stato di Israele con il brano Neiborhood Bully, diventato poi negli anni un inno sionista. La tragedia dell’Olocausto compare nel brano pacifista del 1964 With God on Our Side: Una dura polemica sull’idea americana di essere sempre dalla parte del giusto e di avere «Dio dalla propria parte» (proprio come rivendicavano i nazisti con il motto «Gott mit Uns»). Canta Dylan: «Quando la seconda guerra mondiale si concluse/Noi perdonammo i tedeschi e poi ne diventammo amici/Anche se ne hanno ammazzati 6 milioni/Li hanno bruciati nei forni/Anche i tedeschi adesso hanno Dio dalla loro parte».

«AUSCHWITZ» (FRANCESCO GUCCINI)

«Non so ancora perché quella canzone mi sia venuta in mente – ha ricordato Francesco Guccini di una delle sue canzoni più celebri e una delle prime che compose – stavo preparando un esame di latino, e presi la chitarra. Avevo appena letto due libri , Tu passerai per il camino di Vincenzo Pappalettera (ex deportato di Mauthausen, ndr) e Il flagello della svastica di Lord Russel e mi è venuta spontanea questa canzone. La scrissi su un fogliettino di carta da quaderno. È stata poi cantata dall’Equipe84 perché io ai tempi non avevo nessuna intenzione di fare da grande il cantautore. Non ero iscritto alla Siae e quindi la prima versione del brano, che si chiamava Canzone del bambino nel vento, è stata firmata da due prestanome. Anche mio padre era stato in un campo di concentramento, non un campo di sterminio, ma un campo militare. Ma non mi aveva mai raccontato niente. Forse anche per questo motivo ho voluto scrivere una canzone».
Il brano, del 1966, è una narrazione a due voci: un bambino morto e «passato per il camino» e l’autore che si interroga sulla crudeltà dell’uomo: «Io chiedo quando sarà che l’ uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare e il vento si poserà». 50 anni dopo quella canzone, Francesco Guccini, che alla fine «da grande» è diventato cantautore, è andato in visita a Auschwitz, un’esperienza raccontata nel documentario Son morto che ero bambino.

«DACHAU BLUES» (CAPTAIN BEEFHEART)

Tratto dal capolavoro di dadaismo rock Trout Mask Replica del 1969, questo brano è un disperato blues, convulso e atonale che vuole, più che lanciare un messaggio, tentare di comunicare l’orrore del genocidio e della seconda guerra mondiale. Su tutto domina il clarino basso di Captain Beefheart e la sua voce cavernosa che anticipa il cantato sofferto che farà suo Tom Waits. Visto il tono – in genere provocatorio dell’album – il pezzo si prestava però a fraintendimenti e ad accuse di cattivo gusto. Forse anche per questo non fu mai suonato dal vivo.

«RED SECTOR A» (RUSH)

Red Sector A è forse una delle canzoni rock più significative dedicate all’Olocausto, pubblicata dai canadesi Rush nel 1984 nell’album Grace under Pressure. La storia del brano è strettamente connessa alla vicenda personale del leader della band Geddy Lee. Il suo nome di nascita è Gary Lee Weinrib, nato a Toronto nel 1953 da Manya Rubenstein e Morris Weinrib, due ebrei polacchi di Staracohwice che furono internati da ragazzi prima in un campo di lavoro poi nei campi di sterminio. La loro prima tappa fu Auschwitz da cui vennero poi smistati. Morris finì a Dachau e Manya a Bergen-Belsen. Con la sconfitta dei nazisti entrambi vennero tenuti per qualche tempo a Bergen-Belsen che venne trasformato temporaneamente in un campo profughi.
L’aspetto unico di questa storia è che Manya e Morris, provenienti dalla stessa cittadina polacca non si conoscevano, si incontrarono nelle baracche degli ex internati e decisero di sposarsi. Il matrimonio fu celebrato proprio a Bergen-Belsen. Un luogo di sterminio divenne l’inizio di una nuova vita. L’anno dopo migrarono in Canada. Il testo di Red Sector A è stato scritto dal batterista e paroliere della band Neil Peart e si basa sui ricordi diretti della madre di Geddy Lee. «Senti i colpi di fucile ai cancelli. Sono arrivati a liberarci? Ma cosa spero o di cosa ho paura? Per mio padre e mio fratello è troppo tardi. Ma devo aiutare mia madre a stare in piedi (…). Siamo gli unici rimasti vivi? Siamo gli unici esseri umani sopravvissuti?». Nel 1995, Lee ha riaccompagnato la madre a Bergen-Belsen per commemorare i 50 anni dalla liberazione del campo. «Per lei fu il completamento di qualcosa – ha ricordato il cantante – essere in quel luogo con i suoi figli per lei è stata una rivincita. Si è sentita per la prima volta vittoriosa, come se pensasse: «Io sono ancora qui e voi no!»

«DANCE ME TO THE END OF LOVE» (LEONARD COHEN)

Discendente di una generazione di ebrei dell’Europa orientale emigrati in Canada prima delle persecuzioni naziste, Leonard Cohen ha spesso fatto riferimento nelle sue canzoni alla sua educazione ortodossa. Tuttavia un suo brano ispirato al dramma della Shoah è spesso stato interpretato solo come una malinconica canzone d’amore. L’amatissimo brano del 1984 Dance Me to the End of Love, incluso nell’album Various Positions è ispirato ai campi di sterminio.
Ha ricordato l’artista in un’intervista: «La canzone è nata sentendo i racconti dei sopravvissuti sui campi della morte. Accanto ai forni crematori, in alcuni lager, un quartetto d’archi era costretto a suonare quando si stava consumando questo orrore. Un orrore che era il destino anche delle stesse persone che suonavano. Suonavano quando i loro compagni morivano e venivano bruciati».
Ma nei versi della canzone il dramma sembra scomparire nella missione salvifica e pacifica delle musica, capace di essere più forte di ogni crudeltà. «Guidami – recita il brano – oltre la paura finché non sarò al sicuro. Sollevami come un ramoscello d’ulivo e diventa la colomba che mi riporta a casa. Guidami fin dove finisce l’amore».

«HATACHANA HAKTANA TREBLINKA» (YEHUDA POLIKER)

Yehuda Poliker è uno degli artisti che ha plasmato la musica popolare israeliana a partire dagli anni ’80. Ha iniziato la carriera come leader del gruppo rock Benzin per poi continuare da solista, ma collaborando sempre con Ya’ackov Gilad, autore di testi e anch’egli membro dei Benzin. Poliker e Gilad sono rappresentanti della prima generazione di israeliani figli dei sopravvissuti all’Olocausto. Il padre di Poliker, un ebreo greco di Salonnicco fu deportato, ma cinquanta membri della sua famiglia morirono nei campi nazisti.
La madre di Gilad, Halyna Birenbaum, venne deportata a 15 anni e sopravvisse per un puro caso alle camere a gas. Nel 1988 i due lavorarono insieme all’album Efer VeAvak (Cenere e polvere), che oggi è considerato uno dei più importanti e influenti dischi della scena musicale israeliana. La raccolta è una riflessione sulla Shoah e di chi è cresciuto all’ombra del trauma vissuto dai propri genitori. Il brano Hatachana Haktana Treblinka (La piccola stazione stazione Treblinka) è l’unico brano della raccolta a nominare un campo di sterminio ed è forse la più celebre canzone popolare israeliana dedicata all’Olocausto. Il testo, oggi cantato anche in forma quasi rituale durante le commemorazioni, è un adattamento di una poesia dello scrittore ebreo polacco Vladislav Shlengel ucciso durante la rivolta del ghetto di Varsavia.

«THIS TRAIN REVISED» (THE INDIGO GIRLS)

«This Train is bound for glory” (Questo treno è diretto verso la gloria) è una canzone gospel che fa parte della tradizione della musica Usa; le sue versioni discografiche più celebri sono forse quelle di Johnny Cash e Woody Guthrie. Il duo folk femminile statunitense, paladino delle lotte per i diritti di gay e lesbiche, nel 1994 decise di rivedere questo brano.
Il treno cantato qui non è più quello dell’inno religioso che trasporta i virtuosi e i convertiti verso la salvezza, ma diventa il treno della morte diretto ai campi di sterminio che trasporta «zingari, omosessuali e la stella di Davide». Anche questo però, a suo modo, è un viaggio verso la gloria. Le vittime viaggiano verso l’eternità, gli assassini verso l’ignominia della storia: «Questo treno porta mia madre. Questo treno porta mio padre. Questo treno porta mia sorella. Questo treno porta mio fratello. Questo treno è diretto verso la gloria».