A Martin Luther King, celebrato in questi giorni, viene reso omaggio più volte nella canzone angloamericana dagli anni Sessanta ai nostri giorni. Il precedente illustre è The Ballad of Birmingham (1967) di Jerry Moore, sull’album Life is a Constant Journey Home, pubblicato dunque l’anno prima dell’assassinio; è una risposta alla bomba contro la chiesa Battista della Sedicesima Strada (1963), con il testo ricavato da una poesia di Dudley Randall, che Moore legge su un giornale chiedendo subito il permesso di adattarla a canzone. Quasi come un instant record Abraham, Martin and John, scritto da Dick Holler (celebre per fornire canzoni a Ray Charles, Emmylou Haris, Kenny Rogers, ecc.) viene inciso da Dion già nell’agosto 1968, con un testo perentorio che esamina la serie di omicidi politici che definiscono tragicamente l’Amerika nei Sixties: da allora diviene una cover per dozzine di artisti, tra cui Smokey Robinson, Marvin Gaye e persino Leonard Nimoy (lo Spock di Star Trek).
Sul piano dell’attivismo andrebbe in primis menzionato, all’inizio degli Eighties, il «Buon compleanno» di Wonder, un semplice tributo all’uomo e all’idealista, determinante a stabilire e organizzare una festa nazionale che commemora la nascita del Reverendo. Uno tra i più longevi cavalli di battaglia degli U2 è ispirato a Bono dalla lettura della biografia di Stephen B. Oates Let the Trumpet Sound. In parallelo il romantico soulman Bobby Womack con American Dream (1984), co-scritto con Jim Ford, di fatto riassume il pluricitato discorso «I Have a Dream» per l’album The Poet II, mentre la bella versione di Calvin Richardson, che mantiene intatta l’originale carica black, è tratta da Facts of Life: Soul of Bobby Womack (2006). Insomma negli anni Sessanta, come pure nei primi Eighties, le song sui diritti civili e sull’eredità del pacifista ucciso rappresentano quasi un rito di passaggio per cantanti e cantautori. Nel 1985 il bianco Kris Kristofferson con They Killed Him compone un brano che non riguarda solo il Reverendo, ma coinvolge pure Gandhi e Gesù Cristo, brano divenuto celebre, quando, l’anno seguente, Bob Dylan ne fa una cover per l’album Knocked Out Loaded.
Anche nel nuovo Millennio l’interesse è alto. Nel 2002 persino i punkster di Pittsburgh Anti-Flag con 911 for Peace danno il via al loro quinto album Mobilize: inno senza tempo sul tema «combattere, uccidere, morire», dove il fulcro tematico arriva a metà canzone, quando le parole «io ho un sogno» appaiono una bozza di suono, portando a casa il messaggio perenne della song medesima. Nel 2009 Dream Speech dei Gregory Brothers fa di «peggio»: campionano in video il discorso sino a far cantare lo stesso King con stratagemmi tecnologici ed esiti finali di accattivante kitsch. E ancora nel 2011 So Beautiful or So What di Paul Simon è la title-track del penultimo album del celebre folksinger contenente alcuni versi sull’assassinio di King (Quattro uomini sul balcone/Affacciato sul parcheggio/Indicando una figura in lontananza/Dr. King è appena stato colpito) nel tipico stile da cantautorato americano: secco, conciso, realistico, qui anche rockeggiante.
Le migliori canzoni su, con, per Martin Luther King sono però le quindici commentate qui di seguito, in ordine cronologico.

NINA SIMONE «WHY?
(THE KING OF LOVE IS DEAD)» (1968)
La jazz girl dolentemente ispirata scrive una commossa ballad, chiedendosi subito «perché il re dell’amore è morto»; la risposta è un canto sia d’amore sia di strazio: mette in dubbio se ogni speranza risulti persa nell’ipotesi di un futuro di bontà e di uguaglianza nel mondo intero: «Il mio paese cadrà, si alzerà o cadrà?/È troppo tardi per tutti noi?/E Martin Luther King è morto invano?». Resta un brano – recuperabile su Nuff Said! – solenne, intriso di dolore e carico di sentimento, quasi una laude di Nina Simone verso il Reverendo.

OTIS SPANN «BLUES
FOR MARTIN LUTHER KING» (1968)
Per alcuni critici statunitensi il paragone va subito con il brano Ohio di due anni successivo, cantato da Crosby, Still, Nash & Young (ma composto solo da quest’ultimo) che racconta della polizia che uccide quattro studenti durante la pacifica occupazione della Kent State University del 4 maggio 1970. Come Ohio, questo blues – in tempo reale – di uno dei migliori pianisti chicagoani, è un lamento giocato sui titoli dei giornali che mette in relazione le dubbie circostanze politiche di un assassinio razzista.

STEVIE WONDER «HAPPY BIRTHDAY» (1981)
Molti dimenticano che il grandissimo songwriter e soulman è da sempre generoso attivista sociale e come tale scrive una melodia ritmata quale parte della campagna dei festeggiamenti appunto dell’anniversario kinghiano. Le liriche della canzone, veleggianti sopra il tappeto sonoro di tastiere e sintetizzatori, vedono Wonder chiedersi perché qualcuno ancora si oppone a commemorare l’eredità morale, spirituale, culturale del reverendo, mettendo da parte un giorno pregiudizi o falsità su di lui. «Non ho mai capito, come un uomo che è morto per sempre/venga accantonato e non possa avere un giorno per il suo riconoscimento»: e più che cantare Stevie quasi predica per la giusta causa.

U2 «PRIDE (IN THE NAME OF LOVE)» (1984)
All’uscita del quarto album della band irlandese, diversi ascoltatori subito nutrono il dubbio se King sia veramente il soggetto di questo «orgoglio (nel nome dell’amore)». Ma bastano pochi versi (scritti da Bono) a eliminare ogni perplessità: «Mattina presto, 4 aprile/Uno sparo risuona nel cielo di Memphis/Finalmente libero, hanno preso la tua vita/Non potevano prendere il tuo orgoglio».
Dal punto di vista storico il brano, nato anche come singolo di traino per il quarto album The Unforgettable Fire, contiene un errore di fatto: l’omicidio del reverendo accade in prima serata.
Tuttavia la svista (complice il fuso orario?) o la licenza poetica non preoccupa i fan che si beano della chitarra di The Edge, dove all’inizio di Pride si produce in uno dei grande riff dell’epoca, tuttora apprezzato e riconoscibilissimo.

U2 «MLK» (1984)
Forse, per alcuni, è una sorpresa che una band irlandese possa creare due delle canzoni più eseguite su di una figura-cardine della storia americana, ma questo dimostra chiaramente l’influenza e l’importanza del Reverendo in tutto il mondo. La song appare come una breve ninna nanna: benché presente sullo stesso album di Pride (In the Name of Love), le due sembrano quasi agli antipodi a livello di gusto musicale: entrambe conducono però Bono a essere onorato dal memoriale ufficiale, il King Center.

QUEEN «ONE VISION» (1985)
«Guarda cosa hanno fatto ai miei sogni», canta Freddie Mercury su una bella schitarrata di Brian May in questo singolo che apre pure il dodicesimo album, A Kind of Magic, del quartetto londinese. La voce e il «suono» di Mercury appaiono del tutto vibranti e cristallini, intonando versi positivi di speranza e di unità per la gente, in contrappunto a un sostegno strumentale vivacissimo. E c’è persino, più che una ghost-track, una serie di voci mascherate all’inizio della canzone, dove si percepisce qualcosa del tipo «dio lavora in modi misteriosi… modi misteriosi…».

THE KING DREAM CHORUS & HOLIDAY CREW «KING HOLIDAY» (1986)
Il sogno di King viene condiviso da molti artisti, tra cui Fat Boys, Menudo, El Debarge, New Edition, Run-D.M.C., la defunta grande Teena Marie e la compianta Whitney Houston, qui alle prime armi. L’eccezionale cast di musicisti famosi si riunisce per cantare e rappare in onore del Reverendo e soprattutto per ricordare l’attualità dei suoi ideali. Fin da subito il videoclip a low budget risulta antiquato e di bassa qualità, ma per gli afroamericani il tutto è un evento da inserire nei libri di storia!

PUBLIC ENEMY «BY THE TIME I GET TO ARIZONA» (1991)
Il pezzo viene scritto da Chuck D della celebre rap band newyorkese, quale risposta diretta ai funzionari dello stato dell’Arizona (tra cui John McCain e Fife Symington) per il rifiuto di organizzare una festa di celebrazione, a livello federale, in omaggio a King. I contenuti del brano sono paradossalmente riemersi e riattualizzati l’anno scorso, quando l’attuale governatrice repubblicana dell’Arizona, Jan Brewer, firma una legge sull’immigrazione che dà alla polizia di quelloStato il potere di imprigionare persone sospette o prive di documenti, dimostrando che la stessa politica rappata in By The Time I Get to Arizona è purtroppo ancora viva e vegeta.

RAGE AGAINST THE MACHINE «WAKE UP» (1992)
Come King, i quattro losangeleni Rage Against the Machine non sono estranei alla disobbedienza civile e in questa feroce traccia del loro primo album (senza titolo) sottolineano la frase-chiave con cui termina “How Long, Not Long” uno dei grandi comizi di King, “Quanto tempo non lungo, perché ciò che raccogli è ciò che semini”; e a cantare la riflessione sul razzismo negli Stati Uniti è Zack de la Rocha.

BEN HARPER «LIKE A KING» (1994)
Sull’album di debutto, Welcome to the Cruel World, ecco una melodia popolare, il cui fascino risiede proprio nella ferma presa di posizione di tipo politica. Il brano disegna alcuni parallelismi tra Martin Luther e il quasi omonimo Rodney King, una vittima nei primi anni Novanta della brutalità della polizia losangelena. Il pensiero del rocker di Claremont sulla questione è facilmente deducibile: «Il sogno di Martin – afferma – è diventato il peggior incubo di Rodney».

DAVID GUETTA JUST A LITTLE MORE LOVE (2002)
Tanto la pace, l’amore e il rispetto risultano gli obiettivi principali dell’agenda lutherkinghiana, quanto il brano presenta un analogo sentimento nei confronti dell’esistenza umana. Attraverso una gioiosa dance elettronica, dall’album Just a Little More Love, David il dj francese cerca l’idea di come portare una maggior quantità di «peace and love» all’umanità intera; insomma un ballo da discoteca, ma concepito per il bene più grande: «Solo un po’ più amore/Solo un po’ più di pace/È tutto ciò che serve/Per vivere il sogno».

COMMON FEAT. WILL.I.AM – I HAVE A DREAM (2006)
Si tratta forse della miglior campionatura dell’arcinoto sermone, poiché i due rapper uniscono le forze per registrare una traccia apparsa sulla colonna sonora del film Freedom Writers (diretto da Richard LaGravenese), riguardante la storia vera di un’insegnante progressista. «Il mio sogno è di essere libero”, canta Will.i.am sul coro, mentre Common condivide versi su lotta, dolore, speranza, dimostrando che la generazione rap porta il massimo rispetto alle idee del Reverendo.

BRUCE SPRINGSTEEN «WE SHALL OVERCOME» (2006)
Il disco del Boss The Seeger Sessions – dedicato a Pete Seeger, l’antesignano bianco in musica, assieme a Woody Guthrie, delle lotte civili, politiche, sindacali in Usa – presenta quest’inno di protesta come un capolavoro. We Shall Overcome – amatissima da King, per l’illimitato ottimismo e intonata in mille cortei assieme a Guy Caravan, Joan Baez, Bob Dylan e lo stesso Pete – deriva da un gospel e risale probabilmente al 1903 grazie al reverendo Charles Tindley di Filadelfia, che inventa il verso ripetuto più volte «I’ll overcome some day», perfezionato anni dopo in «Deep in my heart, I do believe/I’ll overcome some day». Teoricamente applicabile alla maggior parte dei casi di oppressione diffusa, diventa ben presto la sigla dell’intero movimento per i diritti civili degli Stati Uniti nel secondo Novecento. E questa nuova versione si libra, guadagnando slancio (e strumenti) finché la melodia si riempie dello spirito incoraggiante con il mantra-promessa di King.

PATTY GRIFFIN «UP TO THE MOUNTAIN» (2007)
Mix di gospel e folk, è il tributo alle emozioni che ancor oggi emergono dall’iconico discorso del 1968, I’ve Been to the Mountaintop (Sono stato in cima alla montagna) consegnato tristemente un giorno prima dell’assassinio. Con un tocco di morbido soul, dall’album Children Running Through, l’interpretazione della country singer delle parole di King accentua un’intrinseca spiritualità nel modo in cui ricorda all’ascoltatore di concentrarsi sulle cose belle che lo circondano: il bene più grande.

LAMBCHOP «SHARING A GIBSON WITH MARTIN LUTHER KING, JR.» (2008)
Enigmatica canzone proveniente dall’altrettanto criptico album OH (Ohio), il decimo per il quintetto alt-country di Nashville. Bisogna analizzare attentamente i testi della band per trovare un filo logico sull’argomento trattato: il discorso su King è mescolato, un po’ alla rinfusa, a valori condivisi quali pace, giustizia e bellezza spirituale, non senza un accenno alla disperazione urbana.