Trionfo dell’estetica, imprescindibile tassello che obbliga a tornare, rivedere, ragionare sul passato, Una campagna senza precedenti, documentario del 1931 che porta la firma di Mikhail Kaufman, torna alla luce dopo otto decenni di oblio e a due anni di distanza dalla prima proiezione in assoluto dalla sua riscoperta.
Il Centro cinematografico nazionale Oleksander Dovzhenko di Kiev lo ha portato alle Giornate del Cinema Muto, con uno speciale accompagnamento dal vivo sulle note nu jazz dell’Anton Baibakov Collective, arrivato apposta dall’Ucraina.

Mkhail Kaufman (con Boris) era fratello di Dziga Vertov, il quale, dopo essere stato licenziato dal Sovkino di Mosca, criticato per il suo «formalismo», si era trasferito nel 1927 a Kiev, dove esisteva un’industria cinematografica indipendente. Qui lo raggiunse Mikhail, che lo affiancò come operatore per L’undicesimo e L’uomo con la macchina da presa. Tra i due ci fu qualche attrito. Pare che Vertov non apprezzasse troppo l’autonomia del fratello, né il fatto che utilizzasse gli scarti dei suoi film per inserirli in altri lavori realizzati per conto proprio.

Tra questi Una campagna senza precedenti (Nebuvalyi Pokhid) che include, all’inizio e alla fine, scene descritte nelle note di lavoro, che tuttavia non trovano riscontro nella versione finale de L’undicesimo. Visto un po’ come l’ombra del fratello, Kaufman fu rivalutato nel corso degli anni, fino a essere considerato, da molta critica, coautore dei film di Vertov.
A differenza di quest’ultimo, però, irresistibilmente attratto dalle «macchine» e dal furore tecnologico, Kaufman mostrava invece più interesse le persone, il «fattore umano». Una particolare sensibilità, venata di lirismo, che si coglie anche in Una campagna senza precedenti, concepito come celebrazione del primo piano quinquennale (’28-’32) che avrebbe dovuto testimoniare, in pieno stile agit-prop, il trionfo dell’industria e dell’agricoltura, dell’assistenza sociale e dell’alfabetizzazione.

Quattordicimila metri di pellicola girati proprio sul finire dell’autonomia del cinema ucraino, mentre cominciano a soffiare venti di cambiamento. Kaufman filmò le scene della collettivizzazione delle terre e la meccanizzazione avviata nel più grande kolhkoz di grano della regione Kuban con i nuovi trattori prodotti a Stalingrado che andavano a sostituire le macchine agricole inglesi o americane. Al termine del film, inquietante come una premonizione, appare un cartello: «La liquidazione dei kulaki come classe», non si sa quanto realmente voluto da Kaufman o se imposto da Mosca.

Certo è che le immagini del ’31, i contadini felici, i raccolti fecondi, mettono i brividi se si ripensa alla tragedia che stava per abbattersi sul territorio. Un anno dopo, l’Holodomor, una carestia senza precedenti, provocò milioni di morti. Una delle più tragiche pagine di storia del secolo scorso, le cui possibili responsabilità da parte dell’Urss di Stalin non sono state ancora definitivamente chiarite.
Sorprendente per modernità, Una campagna appare piena espressione della teoria del «cine-occhio»: la frenesia, il ritmo, gli effetti di una modernità inarrestabile, affascinante e al tempo stesso maligna. Ma non passa neppure inosservata un’ affinità con l’opera del coevo Dovzhenko: le inquadrature delle mele, i frutti della terra, le spighe di grano agitate dal vento, i volti umani carichi di espressività sembrano quasi prese a prestito da La Terra. Magnifica sintesi poetica e politica.