Si è avviata una campagna elettorale preoccupante: ogni competitor sta mettendo in campo non un progetto politico, ma proposte di bandiera. Dato il tempo breve che ci separa dal voto, sarà difficile vedere correzioni radicali nelle prossime – poche – settimane, e ancor più nell’immediato a causa del toto-candidature. Le bandiere sono difficili da abbandonare: canone Rai, bollo auto, tasse universitarie, legge Fornero, reddito di cittadinanza comunque denominato, pensioni minime a mille euro, e altro ancora. Gli oneri sul bilancio vanno secondo stime diverse da alcune decine a circa duecento miliardi di euro. Per di più in un contesto in cui quasi tutti promettono di tagliare le tasse, e qualcuno si agita in specie per la flat tax. Non basterebbero babbo Natale e la befana assommati.

Questo tipo di campagna elettorale potrebbe forse avere un senso in un contesto marcatamente maggioritario, in cui la proposta eclatante ancorché poco credibile può spostare quel tanto di voti che fa scattare l’incentivo in seggi, o impedisce ad altri di raggiungerlo. Così fece Berlusconi con le tasse nel 2013 a poche settimane dal voto, e il gioco in parte gli riuscì. Ma con la legge vigente e la situazione in atto sappiamo già che probabilmente il governo si formerà con una trattativa tra forze politiche diverse in parlamento.

La trattativa sarà più difficile dopo una campagna centrata sulle bandiere. Qualunque accordo dovrà contenere una clausola di rispetto delle promesse fatte dai contraenti. Volendo realizzare quelle promesse, comunque assortite, nel giro di qualche mese dovremmo portare i libri in tribunale, o tornare alle urne.

Probabilmente Mattarella, nel sollecitare promesse elettorali concrete e realistiche, pensava appunto al parto del futuro governo e alla durata della legislatura. Negli anni del proporzionale i partiti presentavano ponderosi tomi programmatici, con brevi cenni sull’universo. Ma che proprio per questo non legavano il partito a proposte semplificate a misura di tweet, e come tali poco suscettibili di mediazioni. Si poteva così puntare alla composizione di elementi programmatici diversi in un accordo di governo difendibile davanti alla propria base elettorale. In un contesto che non prefigura un vincente maggioritario, il programma elettorale deve essere pensato anche in vista del dopo voto, e contenere un nucleo di proposte che siano praticabili in vista del governare in coalizione. Non basta dichiarare una generica disponibilità a parlare con tutti, o alcuni. Bisogna anche costruire nel programma la possibilità di parlare linguaggi diversi, ma compatibili.
Nulla di tutto questo si vede. Forse, le rozze pratiche del maggioritario da bipolarismo forzoso, unitamente alla semplificazione parimenti forzosa imposta dalla rete, hanno dissolto ogni consuetudine con le complessità del fare politica. Ma è un’arte che bisogna ritrovare, per puntare alla stabilità possibile oggi. Almeno se non si vuole una nuova spinta a grandi riforme basate sulla concentrazione del potere sull’esecutivo, con maggioranze parlamentari taroccate dal sistema elettorale. Il film della governabilità che abbiamo già visto.

Cosa fa in tutto questo la sinistra ultima nata? L’obiettivo dovrebbe essere espandere il consenso nel non voto e tra i giovani, e non bastano a tal fine i nomi di Grasso e Boldrini sulla scheda. Al momento si percepiscono essenzialmente segnali di battaglie navali interne e rissa sulle candidature. Capiamo bene il problema, essendo in prospettiva il numero degli eletti piuttosto ridotto. Come rendere visibile un messaggio di novità che recuperi consensi? Non dimentichiamo che visti i rapporti di forza il candidato di collegio uninominale – salvo improbabili eccezioni – non sarà eletto, e che nel proporzionale può ragionevolmente farcela solo il primo in una lista corta. Vedremo come capilista molte facce antiche, con percorsi parlamentari o di governo, cui si può rivolgere l’accusa di passata intelligenza con il nemico? Basterà lo sbarramento di due legislature? Con quante deroghe?