La Milano di Strehler, di Testori, di Arbasino, come linea di stile. Una pedagogia manzoniana, che educhi con le grandi narrazioni popolari. Una filologia piana, chiara, che agisca sui documenti non meno che sui testi figurativi, secondo un metodo messo a punto sulla scia di maestri come Paola Barocchi, Dante Isella e Gianni Romano. Questi gli ingredienti di base di una mostra – che raccontiamo da dietro le quinte – dove si prova a dire tanto di nuovo su Bernardino Luini e i suoi figli, a cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa (Palazzo Reale, fino al 14 luglio, catalogo Officina Libraria).

Questa mostra non è che un capitolo di una saga che consiste nella riscrittura di pagine centrali della vicenda artistica lombarda. Da ricordare almeno la monografica su Foppa organizzata dal Comune di Brescia (2003), il Mantegna del Louvre (2008), l’esplorazione del Rinascimento nelle terre ticinesi a Rancate (2010), la scommessa del Bramantino di appena un anno fa. In un decennio in cui le mostre piacevano se c’erano le code alla biglietteria, non se insegnavano qualcosa a qualcuno. Qui invece il cuore è la didattica e la ricerca: i collaboratori sono studenti universitari che lavorano in squadra e capiscono come funzionano schede, bibliografie, fotografie, allestimento, e tutto quel che significa curare una mostra. Al visitatore presentiamo quel che emerge dallo studio, incertezze incluse. Un modello che viene dalla Siena di Giovanni Previtali e Luciano Bellosi, dove, fra anni ottanta e novanta, una serie di mostre ha consentito di capire meglio il ciclo di quella storia dell’arte, dal gotico a Beccafumi, grazie a un forte legame fra università e comune. E oggi che musei e soprintendenze sono sempre più sotto attacco, la partita delle mostre appare ancora più decisiva. Non come rifugio, ma come ariete: per rientrare dalla porta maggiore. La speranza è insomma che la generazione di storici dell’arte che ora si va formando – all’università di Milano e non solo – riesca a fare tesoro di esperienze di questo genere. E faccia capire, al pubblico e al potere, qual è il senso reale del proprio mestiere.

La Madonna con Bambino del Castello Sforzesco di Vincenzo Foppa (1475), dipinta quando Luini è ancora bambino, sta a indicare che è lunga la gittata che si vuole percorrere: in funzione di prologo, è l’opera di un patriarca prospettico e scheggiato. Come la Crocifissione della Sabauda di Gaudenzio Ferrari, posta all’apertura del Seicento lombardo da Testori nel 1973, sempre a Palazzo Reale. Ancora tre Madonne, prima di scoprire il primo Luini: segnalano inversioni di rotta verso Leonardo (il Maestro della Pala Sforzesca) o fedeltà a una chiarezza lattea di paese (il Bergognone della Carrara). Dell’attività giovanile di Luini, su cui si è tanto discusso, si ipotizza di rintracciare le mosse in Veneto: si fa capo a una pala d’altare, oggi al Jacquemart-André, firmata e datata 1507, di cui è ignota la provenienza – nel 1794 era in una collezione privata di Venezia. L’aria che tira richiama Treviso: e in sala, su tutto, svetta quel Ritratto di giovane di Lorenzo Lotto (1503-1505 circa, anche lui dalla Carrara) che sta fra il genio e l’idiozia. Anche di due polittici smembrati non è chiara la provenienza: per il primo, cinque Santi in collezione Borromeo (1510), si propone una divisione di mani: di Bernardino (si è trovata la firma) sarebbe solo il fulgido San Sebastiano, dal corpo tutto in luce, e di altri due pittori, Bernardino Ferrari e il Maestro di York, le restanti quattro. Per il secondo polittico (1510-1512), gli indizi convergono verso la pista luganese, in forza del ritrovamento di copie seicentesche in una parrocchiale del luogo. Silenziosamente, Luini trova la sua cifra, quasi che avvicinare ai fedeli madonne e santi fosse una vocazione istintiva. Normalizza le sperimentazioni intellettualistiche di Bramantino, dove ogni geometria era mutata in mistero. Un altro rapporto forte di Luini è con Bernardo Zenale: i due si legano in compagnia e condividono una stessa posizione culturale: fare i conti col passato (Foppa, Bergognone) ma esplorare, per quanto possibile, il nuovo senso bramantiniano e leonardesco delle cose. Ma ci sarebbe voluta in mostra la Pala Busti di Zenale (1515), prestito sciaguratamente non concesso da Brera.

In campagna, nella villa detta la Pelucca – ma si tratta di un’azienda agricola –, a Sesto San Giovanni, Luini dipinge per Gerolamo Rabia un ciclo di affreschi (1513-1514 circa), sala per sala, e di una, ora, si è precisata l’iconografia: sono storie tratte dal Driadeo d’Amore di Luca Pulci, poemetto fiorentino del 1465. Staccati fra 1821 e ’22 da Stefano Barezzi, in un’operazione che Alessandro Conti definiva «di pura speculazione», gli affreschi poi viaggiano fra Brera e il collezionismo privato: alcuni finiscono nei musei di Washington, Parigi e Londra. Ma il tazebao braidense con le Donne al bagno, scarnificato dallo stacco, si impone nella percezione collettiva: oltre a Puvis de Chavannes, vengono in mente Balthus e Hopper. E infatti l’origine di queste squadrature di volumi va ricercata in Bramantino.

L’opera-simbolo di questo nostro Luini è la Madonna del roseto di Brera (1516-1517 circa): copertina coraggiosa del catalogo è il graticcio, da cui spuntano fogliame, steli spinosi e due rose bianche, ma altre stanno per sbocciare. Stessa scelta per il manifesto della mostra, ma nel dettaglio si include il Bambino meditabondo: è una dimensione più umana. Luini pittore calmo, non piatto; dolce e naturale, privo di malizia, non di malinconia – guardiamo anche i ritratti. Nel 1516 dipinge per Santa Marta, dove superiora del convento è una nobile milanese, Arcangela Panigarola, che crede in una riforma della Chiesa e ha delle visioni. E allora le Sante a monocromo di Luini (ma c’è anche un Lazzaro) – affreschi staccati normalmente nei depositi di Brera, qui riuniti in una sala – ti sembrano colonne di un Vangelo in cui si legge una verità povera.

Di un viaggio a Roma di Luini parla Cesare Cesariano, nel commento alla prima traduzione italiana del De Architectura di Vitruvio (1521), ma non ci sono i presupposti per uno choc stilistico. La pittura di Leonardo e di Raffaello irretisce Luini, che nei due trova nuovi registri emotivi. Del primo è in mostra la Scapiliata della Galleria Nazionale di Parma (1505-1506), accanto, due Salomè: una, da brivido, è di Solario (dalla Sabauda, 1505-1510), la seconda, di Luini, è un’opera che consacra la fama ottocentesca del pittore, anche per la sua collocazione in Tribuna agli Uffizi (1525 circa). È questo il Luini che si è «malinteso», che Longhi distingueva dalla schiera dei leonardeschi e accostava invece a Solario e Boltraffio: pittori di una sensualità eterodossa, da non appiattire sul vinciano.

Una parte per niente secondaria del lavoro per questa mostra ha riguardato Aurelio (1530-1592), figlio minore di Bernardino, ospitato nella Sala delle Cariatidi, insieme a una scelta di pittori di confronto. Non può essere lui, ma una personalità sfuggente che eredita la bottega alla morte di Bernardino, a dipingere la Sacra Famiglia con Sant’Anna e San Giovannino dell’Ambrosiana (1535-1540 circa), opera che dipende dal cartone della Sant’Anna di Leonardo, ora alla National Gallery. Ma in quel momento a Milano il vinciano è più venerato che capito. Bernardino muore troppo presto per consegnare ad Aurelio un qualche mandato di stile e la giovinezza di questi è letta dai curatori in senso veneto. A Milano, in Santa Maria delle Grazie, non mancava un Tiziano: la Coronazione di spine del 1543 oggi al Louvre. È poi centrale la presenza di Aurelio nel 1557 nella chiesa di San Vittore a Meda: qui dipingono Antonio Campi, uno degli invasori della famiglia cremonese che irrompe nella scena milanese, e Giovanni da Monte, pittore vertiginoso e poco noto – e in mostra trovi le ante d’organo della chiesa di San Nazaro (1568-1570 circa): un trionfo di venetismo, in senso tizianesco e manierista. Aurelio si gioca tutte le sue carte su toni spettacolari: è una pittura di colpi di scena. Una prova grandiosa è il Compianto su Cristo della chiesa dei Santi Paolo e Barnaba (1575-1580 circa): la contrazione degli spazi produce una congestione di luci, colori e azioni. Dopo un secolo di pittura – e dopo l’ultimo dipinto di Aurelio, un Martirio di Santa Tecla strappalacrime (1592), dalla sacrestia del Duomo –, il sipario si chiude con un’Ultima Cena di Camillo Procaccini (San Simpliciano, 1587): un’altra storia, quella dei bolognesi migrati a Milano, tutta da raccontare.