C’è silenzio nelle fotografie di Andrea Modica (Brooklyn, New York 1960, vive e lavora a Philadelphia). Immagini lente, costruite attraverso un processo di riduzione, in cui l’ascolto della voce interiore è per l’autrice una premessa irrinunciabile. Nella mostra As we wait (a cura di Larry Fink) nel circuito del SI Fest – Savignano Immagini, che quest’anno festeggia il 25/mo anniversario (fino al 25 settembre) – accompagnata dall’omonimo libro edito da L’Artiere nel 2015 – emerge immediatamente il rapporto con il reale. Non tanto come documentazione, quanto piuttosto come punto di partenza per una declinazione visionaria. Le ventiquattro fotografie in bianco e nero recano soltanto il nome del luogo: Fountain (Colorado), Oneonta (New York), Modena, Remanzacco (Udine), Tonopah (Nevada), Bagnarola di Budrio (Bologna)… mai l’indicazione dell’anno, né altre informazioni. Una storia, perciò, da riscrivere attraverso frammenti come sospesi nello spazio e nel tempo che, come scrive Fink, «pur possedendo margini smussati, urla come un corvo, appesantito ma proteso verso la trascendenza».

Gli oggetti del quotidiano, la natura e i ritratti acquisiscono nelle inquadrature un’intimità naturale venata di mistero e sensualità, in costante tensione emotiva anche per via del processo fotografico stesso. «Uso il banco ottico 20×25, perciò la pellicola ha la stessa misura di queste stampe – spiega la fotografa di origine italiana, nota per il suo straordinario lavoro Treadwell (1986-2001), in cui ha seguito la vita di Barbara, una ragazza proveniente da un ambiente rurale americano, morta tragicamente a causa del diabete. «Il processo fotografico è molto lento, così da permettere di perdere il momento, o cambiarlo, facendo sì che il soggetto raggiunga una certa intimità. Penso che tutte le mie foto nascano da una collaborazione tra il soggetto e me stessa. Posiziono la macchina fotografica in un punto, poi succede qualcosa».

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Il tempo, quindi, diventa quasi un terzo occhio e ciò che accade davanti alla macchina fotografica va gradualmente entrando in una dimensione di apparente finzione. «In un certo senso, le mie foto sono autoritratti», afferma Modica. Alla scuola superiore, prima di conseguire a New Haven il Master of Fine Arts in fotografia all’Università di Yale, è attratta dalla pittura (tra i maestri del passato cita Caravaggio) e dalla scultura, intuendo tuttavia il grandissimo potere della fotografia nella capacità di sovvertire i ruoli di realtà e finzione. Quanto alla manualità che comporta il rapporto diretto con la materia, soprattutto nell’arte scultorea, è un processo a cui è rimasta fedele anche nell’utilizzo di una tecnica fotografica tradizionale (e datata), come quella della stampa al platino con cui realizza tutte le sue immagini. Al posto dell’emulsione di gelatina (o prima ancora di albumina), che contiene i sali d’argento, il platino-palladio viene steso direttamente sulla carta, depositandosi lentamente e conferendo alla fotografia un carattere di opacità che la rendono unica. «Adoro tutto il processo. Sento che le mie mani plasmano il lavoro fin dall’inizio e, soprattutto, in camera oscura, quando devo usare la pellicola e gli acidi. Lì non c’è il telefono, non c’è altro che il buio. Poi devo aspettare, lavare i negativi e fare le prove di stampa, guardarle e decidere se ne esiste una che vale la pena stampare in platino. Questa tecnica si realizza passando il platino a mano, mescolando insieme i prodotti chimici e aspettando almeno un’ora. Non è detto, però, che la stampa venga bene. C’è il rischio che si debba rifare. Durante tutto quel tempo bisogna stare in piedi, in piena solitudine. È un lavoro molto meditativo».

L’approccio di Andrea Modica è fondamentalmente intuitivo e – come ripete ai suoi studenti, nel ruolo di docente di fotografia alla Drexel University di Philadelphia – la ricerca è quella di un proprio percorso, senza insistere perché guardino il lavoro degli altri fotografi. Quanto a lei, tra i suoi mentori parla degli «insegnanti della scuola superiore che hanno cambiato la mia vita completamente, del pittore Len Bellinger e di John Cohen pittore, filmmaker e fotografo della Beat Generation», oltre che, naturalmente, grandi maestri del passato come Julia Margaret Cameron. Lo stesso Larry Fink, che conosce dagli anni ’80, è stato un punto di riferimento, professionalmente e umanamente. «Quando ero studentessa a Yale e lui fu invitato come critico a parlare di fotografia. Furono scelti i nostri nomi: Larry scrisse di un mio lavoro fotografico e da quel momento siamo diventati buoni amici. Al di là del risultato finale, c’era una grande analogia: eravamo entrambi dei cacciatori affamati. Credo che anche per lui il processo sia più importante del prodotto finale. Inoltre, sia Larry che io siamo persone con cui non è facile avere a che fare!».

As we wait è il primo progetto (editoriale ed espositivo) che i due fotografi realizzano insieme. Con estrema fiducia, Modica ha messo nelle mani di Larry Fink almeno dodici cartelle del suo archivio, contenenti ognuna circa una ventina di immagini inedite, scattate tra gli anni ’90 e il 2015. Progetti in corso, come quello sui cavalli con gli scatti della clinica equina di Bagnarola di Budrio (soggetto del prossimo libro) o altri conclusi, come quelli che provengono dal lungo lavoro realizzato in Colorado a partire dal 2000, fotografando la famiglia Baker e la loro attività che da tre generazioni ruota intorno al macello degli animali, accanto ad immagini più intime (i numerosi ritratti al compagno Francesco Nonino, amici e familiari) o foto scartate tra quelle commissionate dalle testate con cui collabora: New York Times Magazine, The New Yorker, Newsweek e American Phot. Però, diversamente da quello che si potrebbe pensare, queste immagini non restituiscono tanto l’idea dell’album personale della fotografa, quanto definiscono quello del curatore. «Non mi sarei mai sognata di accostare le immagini di due ex boyfriend, le tendine della casa della mamma di Francesco, un momento di un weekend con gli amici… l’Emilia Romagna e New York… Larry ha preso questi progetti e li ha mescolati tutti. È come se avesse messo tutte le foto a terra e ci avesse danzato sopra, decidendo di prendere questo o quello. Ha scelto autonomamente. È stato bellissimo, perché è come se, attraverso il suo sguardo, avessi potuto vedere il mio lavoro per la prima volta».

Senza la disciplina non ci sarebbe la sfida, di questo è certa la fotografa: «Molte volte carico in auto la macchina fotografica e vado. Guardo, guardo, guardo e guido, guido, guido. Mi fermo quando vedo qualcosa di interessante. Ma tutti devono essere immobili, perché per scattare una foto ci vuole circa mezzo secondo. È come il cubo di Rubik. Ci sono due o tre cose che si devono fare con questa macchina grande e pesante. Si fa la foto, poi si deve chiudere, mettere la lente, la pellicola… È sempre una grande sfida!»