I rapporti tra Liszt e Wagner hanno fatto scorrere fin dall’Ottocento fiumi d’inchiostro. L’interesse dei critici non è certo sorprendente, sia per il peso che i due artisti hanno avuto all’interno della cultura europea, sia per l’intreccio quasi romanzesco della loro amicizia, che nell’arco di quarant’anni si è sviluppata fino a diventare una matassa inestricabile di idee, sentimenti, interessi e rivalità. Il ruolo di Liszt nei confronti di Wagner, dal loro primo incontro a Parigi nel 1840 alla scomparsa di quest’ultimo nel 1883, si trasforma con una progressione impressionante, dalla posizione di collega famoso via via a quella di mentore, promotore, ispiratore, suocero, monarca spodestato, custode della memoria.

Malgrado l’enorme massa di letteratura sull’argomento, rimangono ancora numerose lacune da colmare e zone d’ombra da chiarire, a causa soprattutto della precoce mitografia sorta attorno a Wagner e del conseguente apparato di controllo e selezione delle notizie gestito con mano energica da Cosima fino ai primi decenni del Novecento. Un utilissimo strumento per penetrare nei meandri di questa intricata vicenda è la raccolta dei principali scritti di Liszt sul teatro di Wagner, riuniti per la prima volta e commentati da un brillante studioso francese, Nicolas Dufetel. Il libro, pubblicato da Actes Sud nel 2013 e tradotto ora in italiano da Alessandra Burani (per Il Saggiatore, pp. 392, euro 38), con un rispetto forse fin troppo ossequioso per un lavoro pensato per il pubblico francese, nasce dal ritrovamento nel 2006, nella biblioteca della Yale University, di un manoscritto lisztiano ritenuto perduto, contenente un saggio sul Fliegende Holländer. Come specifica l’allegato «avviso alla stamperia», di pugno della principessa Carolyne zu Sayn-Wittgenstein, l’articolo avrebbe dovuto formare la terza parte di un volume, il primo in assoluto dedicato a Wagner, dal titolo Trois opéras de Richard Wagner considérés de leur point de vue musical et poétique, assieme a due scritti già pubblicati in precedenza su Tannhäuser e Lohengrin. Il progetto risale al 1859 e s’inseriva sullo sfondo di un’ampia strategia per promuovere il teatro dell’amico, che ancora rimaneva un autore per così dire d’avanguardia, conosciuto e apprezzato da una ristretta cerchia di sostenitori.

Siamo a ridosso della tempestosa rappresentazione di Tannhäuser a Parigi nel 1861, sfociata in una clamorosa disfatta dell’opera. Il fiasco di Tannhäuser segna allo stesso tempo, con la famosa lettera di Baudelaire a Wagner, l’inizio di un fenomeno culturale, il wagnerismo, destinato a trasformare in maniera radicale non solo il mondo del teatro, ma anche il volto dell’intera vita spirituale europea. Il libro di Liszt in realtà non vide mai la luce per motivi mai del tutto chiariti, che Dufetel indaga con acuta perspicacia, sulla base di una conoscenza approfondita della fitta trama di rapporti che legano i principali protagonisti dell’aspra guerra combattuta alla metà dell’Ottocento per l’egemonia nella musica tedesca.

Tra le cause del ripensamento figura anche, come sembra maliziosamente adombrare Dufetel, una vera e propria crisi nei rapporti tra i due artisti, testimoniata da una lettera del 1859 di Liszt al genero Hans von Bülow, il primo marito della figlia Cosima, nella quale affiora l’esasperazione per le continue e pretestuose richieste economiche di Wagner e soprattutto l’indignazione per le insinuazioni sull’influenza negativa esercitata dalla principessa Sayn-Wittgenstein sulla sua attività e sul suo giudizio critico.

Liszt tuttavia rimase sempre intimamente convinto della grandezza dell’arte di Wagner, inchinandosi davanti al suo genio anche nei momenti più burrascosi della loro amicizia, come quando lo scandalo della relazione apertamente adulterina di Cosima con Wagner lo ferì in maniera profonda.
Le pagine dedicate a Tannhaüser (come curiosamente pretendeva che venisse stampato in francese) e a Lohengrin, scritte in anni difficilissimi per Wagner, esule e ricercato dalle polizie di tutti gli Stati tedeschi dopo la breve rivolta di Dresda del 1849, soffocata nel sangue in maniera spietata dall’esercito sassone, rivelano l’intuizione precoce di Liszt della portata rivoluzionaria delle idee del giovane collega, che si sarebbero dispiegate appieno nel ciclo del Ring des Nibelungen. Già nel 1856, vent’anni prima della costruzione del teatro di Bayreuth, Liszt cercava invano di convincere il granduca Carl Alexander ad assicurare a Weimar il primato culturale nella futura Germania, simile a quello di Firenze in Italia, mettendo a disposizione di Wagner le risorse per creare la più monumentale utopia artistica della sua epoca.

I suoi sforzi generosi, anche se in quel caso inutili, uniti agli innumerevoli benefici arrecati all’amico nel corso del tempo grazie all’influenza esercitata negli ambienti altolocati di mezza Europa, vennero ripagati da Wagner in maniera come sempre teatrale, e con una punta di condiscendenza, quando, nel grandioso banchetto offerto dopo la prima rappresentazione del Ring a Bayreuth, nel 1876, di fronte a centinaia di rappresentanti delle élites politiche e culturali del continente, l’eroe della memorabile impresa rese merito a Liszt di essere stato il primo ad aver avuto fede in lui, «quando nessuno sapeva ancora nulla di me».

Chissà come avrà reagito dentro di sé l’abate Liszt di fronte a quella non troppo velata allusione di Wagner, che vedeva se stesso come il Messia dell’arte nuova, riservando all’amico il ruolo, onorevole ma decisamente di secondo piano, di Giovanni Battista, un profeta del mondo di ieri.