La storia inizia da qualche parte di un’Africa «ricreata» sotto la Tour Eiffel per gli occhi dei visitatori che nei parchi delle «meraviglie» del secolo scorso imparavano a scoprire l’esotismo dell’altrove. In un lungo istante Dilili, ragazzina «africana» di questa messinscena scopre lo sguardo azzurrissimo di Orel, un ragazzo francese che le parla come in un brutto doppiaggio di Via col vento, a cui lei risponde invece in un perfetto – e desueto – francese quasi leggermente rassegnata, parole che forse non sempre corrispondono a un vissuto e di cui scoprirà significati imprevisti. Dilili viene dalla Nuova Caledonia, oggi sarebbe una «clandestina» difatti si è infilata su una nave diretta verso l’Europa di nascosto, quando l’hanno scoperta era troppo tardi, poi a prendere le sue parti è arrivata una nobildonna che le ha insegnato molto: il francese ricercato, le «maniere» impeccabili a cui la ragazzina aggiunge l’impeto della sua curiosità, la passione per la conoscenza, l’amore per tutto ciò che parla al cuore accendendo il pensiero. Dilili a Parigi è il nuovo film di Michel Ocelot che nella piccola protagonista, e nell’universo che le si riunisce intorno, riprende quei temi che già attraversavano Kirikù o Azur e Asmar, l’intolleranza, la sopraffazione specie contro le donne, aprendosi alla realtà contemporanea, alle sue urgenze politiche e sociali, a cominciare dall’oscurantismo che sembra imporsi su questo nuovo millennio.
Dilili è un’apolide, troppo chiara la sua pelle in patria, troppo scura in Francia, è una piccola donna che sente di essere parte del mondo, combattiva e senza spaventi, pronta a rischiare ogni cosa contro ingiustizie e violenza così come le ha insegnato la sua prima e amatissima maestra anarchica Louise Michel. Sul triciclo di Orel, scopre Parigi, le Tuileries, Montmarte, i Grands Boulevards, il suo skyline – con Notre Dame – che Ocelot ha ricreato in 3D e in animazione partendo dalle fotografie d’epoca, e le persone che la abitano, incontri che lasciano un segno prezioso. Siamo nella città della Belle Epoque, il Novecento è ancora da scoprire col mito del progresso e della modernità, la povertà che Dilili conosce bene sembra dimenticata.

LA PICCOLA flaneur si imbatte in Picasso e Renoir, Toulouse-Lautrec, i fratelli Lumiére e Satie, Rodin e Gustav Eiffel. E in figure femminili speciali, che vogliono affermare ciascuna a suo modo l’emancipazione delle donne e la loro libertà, come Marie Curie, Sarah Bernhardt, Emma Calvé. C’è però chi trama, delle bimbe scompaiono, non siamo in M, piuttosto nelle fogne prolifera una setta, I maschi maestri, fanno leva sul rancore frustrato – lo stesso che oggi accarezzano populisti e destre, un misto di M5S e di Lega insomma – e sulla rabbia vendicativa (ma non di classe) per fare nuovi adepti. Vogliono cancellare la «corruzione» ovvero la cultura, e soprattutto le donne che devono scomparire e stare a quattro zampe senza diritto di parola.
Ocelot definisce Dilili un film umanista: «Denuncio l’imbecillità di certi uomini, perché i maschi che calpestano le donne di certo non sono felici. La felicità è vivere insieme, crescere insieme, arricchirsi. Combatto la stupidità degli uomini che non hanno fiducia in sé e che pensano di dover schiacciare le donne perché non arrivano dove vogliono arrivare» dice. Sono dunque i patriarcati vecchi e nuovi che la piccola Dilili affronta e sfida anche se nel film si possono leggere, appunto, molti altri richiami al nostro tempo, razzismo, arroganza, corruzione, e la ricerca di una lingua comune, di un’esperienza condivisa da inventare.

MA IL TOCCO dell’artista francese – cresciuto in Africa come i suoi personaggi – è sempre lieve, la consapevolezza «didattica» viene distillata con ironia e con freschezza: questo paesaggio dell’immaginario è una meraviglia, la scommessa sta nel continuare a renderlo «vero» e possibile.