In una Venezia non ancora presa d’assalto (molti sono distratti dall’Expo), con i soliti yacht ormeggiati ai Giardini e le terrazze dei palazzi storici affollati di gente vestita da party, va in scena la 56/ma edizione della Biennale d’arte, curata da quel filosofo della contemporaneità che è il nigeriano Okwui Enwezor, un nome spesso legato all’intellettuale engagé di antica scuola. Lui, con il suo sorriso quasi ascetico, non ha deluso le aspettative: ha chiamato in campo Marx in un’Arena dove si declama ogni giorno Il Capitale in versioni impensabili, ha scomodato lo sguardo di Walter Benjamin sulle macerie del passato, ha riportato l’ascolto al centro del discorso umano tout court. Soprattutto, ha scoraggiato il visitatore a «volo d’uccello» e chi crede che l’arte sia solo un parco a tema.
La mostra All the World’s Futures (apertura al pubblico il 9 maggio per chiudere il 22 novembre) è dedicata a un domani collettivo, che si prevede severo, poco propenso a slittamenti di senso visionari e teso come una corda verso un unico obiettivo: intrecciare le biografie individuali, ricucire i frammenti geografici, infrangere le barriere e , quando non si può, semplicemente raccontarle. Soprattutto, ricordare ciò che siamo stati e farne tesoro. Per assolvere a questo compito, a prima vista così poco creativo (sembra una lezione di sociologia irrorata da saggi di economia politica), Enwezor ha invitato in Laguna centotrentasei artisti da cinquantatré paesi diversi (con un’attenzione particolare per l’Africa), incurante dell’età anagrafica, mescolando maestri riconosciuti e talenti emergenti e rendendo omaggio con personali agli autori e autrici ritenuti capisaldi della cultura globale (com’è il caso dell’italiano Fabio Mauri, di cui Enwezor non teme di riproporre il celebre muro di valigie, oppure del conosciutissimo ciclo di fotografie di Walker Evans che immortala l’America agricola dell’Alabama). Con un uso sapiente dell’allestimento tra Corderie, Arsenale e Padiglione Centrale ai Giardini, ha scongiurato però il rischio di una Biennale cronachistica, legata tautologicamente all’attualità.

Serialità della guerra

Il salto proposto è doppio e, in alcuni casi mortale: si viene investiti da installazioni ad ampio spettro spettacolare e poi si procede a ritroso, risucchiati in mondi lontani, a volte ci si perde in pile di vecchi quaderni, souvenir di scuola, brani d’infanzia. C’è la guerra a riportare bruscamente al presente chi volesse cedere a tentazioni nostalgiche. Il grande cannone di Pino Pascali, posto a sentinella delle Corderie è un memento mori per tutti. Così come le «ninfee» composte da lunghi coltelli conficcati a terra dell’algerino Abdel Abdessemed, che sono una delle prime opere che s’incontrano entrando (a scanso di equivoci), insieme alla scritta al neon Death di un veterano degli spiazzamenti come Bruce Nauman. Poco oltre, c’è pure Abu Bakarr Mansaray: lui disegna e costruisce mostruose macchine belliche, dal tratto zoomorfico, per rappresentare i massacri della Sierra Leone. Ed è proprio il disegno, seriale, narrativo, mezzo comunicativo immediato e universale a tornare in mostra. Manifestazioni, momenti neri della dittatura, diari di conflitti, progetti mai realizzati vengono tratteggiati a carboncino, a china, con la biro.

Quattro le parole da tenere in tasca come chiavi per aprire le porte di questa Biennale che farà sbuffare non pochi addetti ai lavori per il suo scarno impatto emozionale e la sua innegabile freddezza concettuale: dislocamento, memoria, vertigine della natura, voce. Il primo termine ricalibra la nozione stessa di museo, mandando in frantumi secoli di consuetudini: se è vero che ogni museo allestisce la sua collezione secondo criteri che affondano le loro radici in una visione coloniale del mondo – è il vincitore che sceglie ciò che è indigeno e ciò che è straniero -, spesso reinventando i termini della Storia, bisogna diventare architetti di monumenti alternativi.

Il cubano Ricardo Brey (1955, vive a Gand in Belgio) propone, nelle sue teche, i «reliquari», dove ibrida religione yoruba, readymade dal valore apotropaico, oggetti quotidiani e sentimentali. Every life is a fire è un progetto iniziato nel 2009 che cerca di inserire il percorso di un individuo a contatto con un tempo collettivo. Non è proprio un archivio, non classifica nulla, casomai scopre quella «politica delle forme» e delle assonanze cui il curatore Enwezor ha fatto riferimento quando ha presentato la sua rassegna. L’artista, curatrice e scrittrice Ala Younis (Kuwait) «classifica» l’utopia urbanistica per una Great Baghdad che non c’è mai stata, mentre il duo di Beirut Hadjithomas e Joreige snocciolano pagina dopo pagina un album inesistente di immagini: quelle che il fotografo Farah non sviluppò mai per mancanza di materiali primi e che però annotò minuziosamente, facendo scorrere nei suoi appunti la storia del Libano. Il camerunense Barthélemy Toguo, invece, fa esplodere quel museo ipotetico nello spazio. Urban Requiem è un’installazione potentissima in cui degli enormi timbri scolpiti in legno, dalla forma vagamente umana, sbarrano il passaggio, popolando la stanza di mute presenze. Come traccia esistenziale, lasciano slogan di protesta stampati sul muro che rimandano alla clandestinità, alla miseria, allo sfruttamento delle risorse umane, ma anche al desiderio di rivolta per contrastare l’alienazione.

I souvenir del lavoro

Il lavoro, infatti, è uno dei protagonisti che affolla l’Esposizione veneziana. Fra canti di schiavi delle piantagioni, canzoni delle fabbriche dell’Ottocento (Jeremy Deller ha messo anche il jukebox per la selezione a piacere), rifugiati africani che intonano l’inno tedesco, l’omaggio più originale è quello di Rirkrit Tiravanija (argentino, vive fra Usa e Thailandia): 14.089 mattoni fatti da muratori, il numero base per costruire una piccola casa cinese, vengono distribuiti ai visitatori così da aprire le mura domestiche, fare breccia nell’intimità e trasformare la quotidianità operaia. La casa è un macrotema che attraversa la Biennale: il turco Meric Algun Ringborg (che vive a Stoccolma), arreda con vari souvenir del mondo una stanza a forma di barca, ricordando i viaggi sulle navi mercantili del nonno, mentre Peter Friedl, in Rehousing (2010-2014) realizza una serie di modellini architettonici che «parlano» di condizioni sociali, si va da Heidegger nella Foresta Nera al padre stesso dell’artista, fino alle baracche per la sopravvivenza fatte con materiali di scarto dagli immigrati. «Resist» c’è scritto ironicamente sulla facciata.

Cartografie sentimentali

Infine, la natura in tutte le sue declinazioni, anche allucinatorie. Ascoltare la voce del pianeta Terra è uno dei «futuri possibili», secondo Okwui Enwezor, anzi forse l’unico percorribile. L’italiana Rosa Barba e la filmmaker Chantal Akerman (Bruxelles, vive e lavora a Parigi) ci proiettano lungo territori di confine, luoghi sconfinati come il deserto, le coste, le acque. Assetati, in corsa folle contro il tempo ci riposiamo all’ombra del Jardin d’Hiver di Marcel Broodthaers, disorientati da palme e cammelli. Annusiamo il profumo delle orchidee fuori misura di Isa Genzken, poi, rimaniamo ipnotizzati dal blu dell’oceano. Inebetiti di fronte all’opera più sconvolgente di tutta la Biennale: l’installazione su triplo schermo di John Akomfrah, Vertigo Sea.

Membro del Black Audio Film Collective, studioso di Stuart Hall e del postcolonialismo, l’artista questa volta si confronta con il mare. Con le sue consuete operazioni di montaggio e ripescaggio di materiali d’archivio, scrive sull’acqua una cartografia sentimentale, compone un atlante dell’immoralità del capitalismo, sulla rapacità dell’economia delle potenze globali. Bellezza e atrocità, balene che giocano e balene arpionate a morte (l’ispirazione viene da Moby Dick), l’agonia di Hiroshima, l’attraversamento avventuroso delle frontiere geografiche. In circa quaranta minuti, scorgiamo fra le onde la storia umana. L’acqua è vita e tomba, bene ineludibile e di assoluta bellezza. E’ l’unico brivido concesso in questa super austera Biennale. Per noi, è il Leone d’oro.