Le scene al confine di Ventimiglia con la polizia italiana scatenata contro i migranti rincorsi fin sugli scogli, è un’estate al mare difficilmente dimenticabile quanto a vergogna del Belpaese e odiosità. Il ministro Alfano, con la coda fra le gambe di fronte alla protervia dei ministri degli interni europei, l’ha perfino rivendicata in pieno dal vertice di Lussemburgo. Come a dire: guardate che anche noi siamo capaci di essere forti con i deboli e di respingere con la violenza i migranti. In più coniando – copiando da film – la parola hot spot, per la necessità dichiarata di avere a disposizione «siti» necessari per la verifica dei possibili rimpatri. «L’efficacia del sistema – ha detto Alfano – dipende da come si gestiscono gli ‘hot spot’, centri d’identificazione in cui separare i rifugiati da chi emigra per ragioni economiche, che va rimpatriato….se gli hot spot non funzionano, salta il sistema».

Eccola l’Europa unita, l’area economica più ricca della terra, ecco l’Italia che si fa «protagonista»: dal prezioso soccorso ai disperati sui barconi di Mare Nostrum siamo passati, sotto l’incubo delle varie elezioni interne, alla missione Triton di blocco e respingimento (solo perché è sotto le telecamere di mezzo mondo, che vengono aiutati, sbarcati e avviati nei centri d’accoglienza dai quali saranno respinti), per annunciare una impossibile – per ora – guerra in Libia; poi da Triton siamo precipitati alle quote, rifiutate da tutta l’Unione nonostante l’esiguità (solo 40mila profughi da ripartire tra 28 Paesi); adesso dalle quote approdiamo ai rimpatri, anche violenti, dei cosiddetti profughi economici.

Perché si può fuggire dalle guerre – almeno a chiacchiere – per sottoporsi poi alla verifica infernale del diritto d’asilo sì diritto d’asilo no, ma dalla miseria e dai disastri economici è vietato fuggire. Impossibile abbandonare le diseguaglianze di accesso ai beni che la nostra economia occidentale ha creato in Africa. Lì dove in molte economie ricchissime di risorse minerarie, di terre e di agricoltura, i popoli invece vivono in miseria, assoggettati a poteri e leadership che noi ben conosciamo, ben ricompensiamo e che siamo pronti a ben remunerare se riprendono indietro gli «scarti umani»: siamo all’accaparramento delle vite altrui, altro che land grabbing. Il profugo economico non passerà mai più dalla fortezza europea.

Naturalmente siamo ormai fuori da ogni sistema di convenzioni internazionali che sostengono l’impianto – residuo – delle Nazioni unite che ormai impallidiscono con il loro diritto internazionale, già ampiamente svalutato dalla pratica della guerra, di fronte al fortino del Vecchio Continente e alle sue nuove regole devastanti ogni principio di civiltà e umanità.

Perché se continua così anche il diritto d’asilo sarà rimesso in discussione di fronte all’autorità di chi ha condotto le guerre «umanitarie» nelle terre da dove oggi fuggono i migranti: chi arriva dal Mali, dov’è in corso l’intervento francese che riguarda anche Niger e Ciad, vale a dire la fascia sottesa al deserto della Libia, distrutta da un altro «nostro» intervento militare, come può mai pensare di fuggire e chiedere asilo se le truppe francese stanno già «garantendo» democrazia e civiltà? E chi fugge dal Kosovo – dalla cui miseria sono in fuga in più di centomila dall’inizio dell’anno – la terra che ha visto il primo intervento umanitario della Nato, come potrà mai rivendicare il diritto d’asilo se i nostri bombardamenti del 1999 sono stati giustificati proprio per risolvere e «pacificare» quella crisi? Rimpatriamoli e basta: soprattutto perchésono i testimoni dei nostri, ripetuti fallimenti bellici. E poi?

La risposta arriva da Parigi e da Budapest: si avanza la proposta di nuovi muri, dopo quello spagnolo di lame e filo spinato di Ceuta e Melilla, ne viene previsto uno dall’immaginario concentrazionario europeo anche a Calais e, minaccia il duro Viktor Orbán, subito sulla frontiera serbo-ungherese. E allora via alla bella rimpatriata.