«Fino a qui, tutto bene». Per Hubert, uno dei giovani protagonisti de L’odio, la metafora della vita nelle banlieue è costituita da un uomo che precipita da un palazzo di 50 piani, per il quale «il problema non è la caduta, ma l’atterraggio». L’eccezione non sono i momenti di scontro, ma l’esistenza quotidiana.

Espulso dal dibattito pubblico, quasi nessuno dei numerosi candidati in corsa per le presidenziali sembra prestarvi particolare attenzione, il mondo di bars er tours, dove vivono poco meno di un quinto dei francesi e una proporzione significativa delle nuove generazioni, riappare sulla scena solo nei momenti di massima tensione.

EPPURE, DA QUESTE PARTI, le cause del malessere sono spesso molte ed evidenti, hanno a che fare con il lavoro, la scuola, la cittadinanza, per non parlare delle prospettive rispetto al futuro. Il quotidiano è fatto anche di altro, di vicende che rendono la sfida di ogni giorno più insopportabile e che sembrano rimandare all’America di Ferguson, ai tanti Trayvon Martin e Michael Brown uccisi senza un vero motivo, vittime casuali di uomini e donne in divisa; vittime di una violenza che li ha resi altrettanti simboli a rischio solo in base al colore della loro pelle o proprio per il fatto di vivere in questi quartieri.

Vicende terribili per le quali la giustizia arriva con troppo ritardo quando non arriva del tutto. I francesi chiamano bavure, sbavature rispetto alle regole d’ingaggio, l’«eccesso di zelo» violento di poliziotti e gendarmi: negli ultimi trent’anni le vittime si sono contate a decine se non a centinaia. A lungo si sono compilate tragiche liste di morti ammazzati, poi, semplicemente, si è smesso di tenere il conto. Forse proprio perché le presunte eccezioni si sono fatte regola. Perciò, silenzio fino alla prossima rivolta.
Eppure c’è già oggi una storia che difficilmente potrà essere cancellata anche grazie al fatto che da mesi la famiglia e gli amici della vittima, oltre ad un circuito di solidarietà sorto in tutte le periferie del paese, hanno dato vita ad una mobilitazione che si fa ogni giorno più ampia.

È LA STORIA DI ADAMA TRAORÉ, un giovane di 24 anni, morto il 19 luglio scorso mentre si trovava in stato di fermo, le mani ammanettate dietro la schiena, nel cortile della caserma della gendarmeria di Persan, nella Val d’Oise, banlieue nord di Parigi. In caserma Adama era arrivato dopo essere stato arrestato nel suo appartamento, perché sospettato di essere coinvolto in una rissa, da tre agenti che per immobilizzarlo a terra gli avevano messo le ginocchia sulla schiena.

DURANTE IL TRASPORTO IN AUTO si era già capito che il giovane non si sentiva bene, «sembrava si fosse addormentato», hanno spiegato in seguito i gendarmi, in realtà aveva perso i sensi. Una volta arrivati, il fermato sarà lasciato per terra, ammanettato e a faccia in giù, con una temperatura che quel giorno sfiorava i trenta gradi. Addirittura gli agenti rifiuteranno di toglierli le manette malgrado le ripetute richieste in tal senso da parte dei sapeur-pompier, chiamati per valutare le sue condizioni. Quando alla fine il giovane sarà rimesso supino non resterà che constatarne il decesso.

COME ERIC GARNER, il 43enne afroamericano soffocato nell’estate del 2014 a Staten Island, New York, mentre un agente lo teneva immobilizzato a terra, anche Adama Traoré è morto per quella che i medici legali incaricati dalla famiglia di realizzare una seconda autopsia, dopo quella richiesta dal procuratore che indaga sulla vicenda, hanno definito come «una sindrome da asfissia». Il primo referto, volto a scagionare gli agenti , indicava come il giovane soffrisse di «una grave infezione» e di «disturbi cardiaci» che ne avrebbero potuto causare il decesso; circostanze smentite dai familiari che hanno invece ribadito come Adama godeva di una salute di ferro e aveva lavorato a più riprese come muratore in diversi cantieri. A fronte delle dichiarazioni rese dagli agenti che sostengono di aver fatto «un uso strettamente necessario della forza», l’avvocato della famiglia Traoré, Yassine Bouzrou, ha già presentato una denuncia per «non assistenza a persona in pericolo».

MA IL BRACCIO DI FERRO con la Procura della Repubblica di Pontoise, è solo all’inizio. Perché niente in questo caso è stato risparmiato ai familiari della vittima e a chi intenda fare piena luce sulla sua morte.

Il giorno dell’arresto di Adama, la madre e i fratelli del giovane, i Traoré sono una famiglia numerosa di origine maliana e da tre generazioni in Francia , furono tenuti per ore fuori dalla caserma della gendarmeria prima che venisse comunicato loro il decesso del giovane e di fronte alle proteste di uno dei fratelli gli agenti presenti fecero uso dello spray urticante che hanno in dotazione.

POI CI SONO STATI I DIVIETI, già quest’estate per la marcia silenziosa che avrebbe dovuto ricordare Adama per le strade del quartiere in cui era nato ed aveva sempre vissuto; la zona di Boyenval, nel comune di Beaumont-sur-Oise, dove la campagna ha progressivamente integrato i lotti di case popolari, in questo caso palazzine di non più di quattro piani e dove amici e coetanei del morto raccontano che le cose non andavano poi così male fino a tre anni orsono, quando i gendarmi hanno preso il posto dei poliziotti, «militarizzando di fatto il quartiere e identificando di continuo chi vive negli alloggi Hlm, spesso le stesse persone più volte al giorno», come racconta uno di loro.

INFINE LA CONDANNA a diversi mesi di prigione per uno dei fratelli di Adama, Bagui, 25 anni, in seguito agli incidenti scoppiati tra le forze dell’ordine e i giovani del quartiere che manifestavano per chiedere «giustizia e verità» per il loro amico. Ma la storia di Adama Traoré non sembra destinata a chiudersi solo con l’incendio di qualche autobus, come accaduto nelle scorse settimane, in questa parte della banlieue parigina. In nome del fratello ucciso mentre era in stato di fermo, Assa Traoré, 33 anni, tre figli, educatrice a Sarcelles, altra periferia popolare della capitale francese, ha iniziato un tour che l’ha portata in molte banlieue e città del paese, su invito della associazioni locali e delle realtà antirazziste e autorganizzate, per raccontare quanto accaduto e i tentativi di occultamento del caso messi in atto dalle autorità. Politici e personaggi dello spettacolo come Omar Sy, Kerry James, Youssoufa, Jean-Luc Mélenchon e Olivier Besancenot le hanno garantito il loro appoggio, e Le Monde ne ha parlato come di una «portavoce, involontaria, di tutte le banlieue». Questa volta far dimenticare cosa è successo ad un giovane nero di 24 anni come tanti altri potrebbe essere più difficile.