«Con un foglio e una matita in mano siamo tutti uguali» è così che la pensa l’artista Flavio Favelli, ed è a partire da questo che ha voluto coinvolgere in un seminario-esercitazione di disegno alcuni ragazzi africani in attesa di protezione internazionale e asilo politico a Forlì. «Ho voluto far disegnare loro le banconote che ricordano, conoscono, hanno usato. L’oggetto forse più desiderato e insieme grande veicolo di immagini d’arte, il più maneggiato quotidianamente, come il pane, eppure il meno conosciuto». L’idea è nata al centro di raccolta missionario di Forlì che Favelli frequenta spesso per trovare materiali e oggetti di recupero, dopo un acquisto, al momento di caricare l’auto un operatore ha chiesto l’aiuto di alcuni ragazzi africani e così ne è nata una riflessione sul tema lavoro/migranti.

SI INIZIA COPIANDO
«Di solito occupazioni di fatica associate a badili, scope e ramazze, lavori umili ormai di pertinenza degli stranieri di paesi poveri, soprattutto africani – racconta Favelli -, spesso bollati come inabili e inadatti al lavoro per natura. Ho pensato a cosa sarebbe potuto accadere se si fosse data una matita in mano ad alcuni di loro. Città di Ebla (che produce la mostra, ndr) si è messa in contatto con la cooperativa sociale Dialogos, che si occupa della gestione del centro servizi per l’integrazione nel comprensorio forlivese e del progetto Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), oltre che di protezione dei minori stranieri non accompagnati, e hanno trovato donne e uomini interessati al seminario. Hanno iniziato a disegnare copiando le immagini dalle banconote, disegnare senza saper disegnare penso sia un grande lusso. Molti nei loro paesi hanno avuto poco tempo da dedicare a sé. Nonostante siano giovani, hanno storie lunghe, complesse e drammatiche. Mi piace pensare che questi lavori portino con sé immagini e riflessi di un continente così complicato, intenso, lontano e anche dannatamente vicino. Bisognerebbe iniziare a pensare e a comprendere che l’Africa è una nostra (lo dico da occidentale) creatura; non c’è più nulla di africano, forse qualche savana e chilometri di deserto, ma il resto, tutto ciò che concerne l’umano, è stato timbrato, vidimato, marchiato dalla nostra parte di mondo. Ecco perché ’aiutiamoli a casa loro’, anche se può sembrare un’idea ragionevole, è una banale e triste illusione. Casa loro non c’è più, c’è solo la nostra, con qualche cantina o solaio».
I partecipanti al progetto sono stati diciotto, età media venticinque anni, da Nigeria, Mali, Gambia, Camerun, Guinea Bissau, Somalia.

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«Sul territorio si applica una forma di accoglienza diffusa in piccoli contesti abitativi», spiega la vicepresidente di DiaLogos Fulvia Fabbri, «la cooperativa si occupa delle emergenze sanitarie poi segue tutto l’iter giuridico dalla commissione territoriale, alla prefettura, fino al primo responso di rifiuto o accettazione delle domande. La maggior parte di loro ha un permesso umanitario, in pochi hanno ottenuto l’asilo, alcuni sono in attesa della commissione e chi ha ricevuto il primo no aspetta di andare in primo ricorso. In media, si trovano in Italia da circa due anni. Qui stanno per un tempo abbastanza lungo e il mezzo artistico è una grande occasione di espressione».
Dietro ogni banconota disegnata, alcune realizzate in uno stile elementare e naif, altre più sofisticate e realistiche, c’è una storia, talvolta drammatica, ma anche tenera, carica di ricordi, come quella di Antonia, nigeriana, che ha scelto dieci naira, pari a pochi centesimi, perché erano i soldi che le davano i genitori la mattina prima di andare a scuola per comprare la merenda. Paul Vasco del Camerun invece ha riprodotto fedelmente diecimila franchi della banca degli stati dell’Africa centrale, l’ultima banconota del suo paese che ha avuto fra le mani prima di cambiare alla frontiera. Il suo viaggio è stato scandito anche dalle monete di tutti i paesi attraversati prima di arrivare in Libia. Micha Buba della Guinea Bissau ha lavorato su una banconota del Gambia regalata da un amico e che non ha cambiato per tenerla come portafortuna che aveva con sé durante il seminario. In Libia lavorava come sarto in condizioni di sfruttamento, nello stesso negozio c’era l’amico con cui aveva fatto tutto il viaggio che gli ha prestato i soldi per potersi comprare qualcosa da mangiare. Mentre si è allontanato degli sconosciuti sono entrati nel negozio uccidendo tutti, per questo ha conservato quei dinari e non li ha più spesi.

IL DENARO SENZA VALORE
Kassim Traoré ha riprodotto cento dalasi del Gambia usando il bianco e nero con matita e penna, tratti molto precisi, con giochi di ombre e chiaroscuri. Afrah viene dalla Somalia, suo nonno parlava italiano, la Somalia era colonia italiana e anche dopo, nonostante l’Italia avesse perso la guerra dal 1950 al 1960 l’Onu ha assegnato al nostro paese l’amministrazione dell’ex colonia. «Mi è sembrato veramente beffardo il destino di Afrah – racconta Favelli – che aspetta un documento di asilo da un’Italia che ha invaso il suo paese dalla fine dell’Ottocento fino al 1940 circa e in cui ancora negli anni ’70 le banconote recavano la scritta in italiano Banca Nazionale Somala e scellino somalo». Sempre in Somalia l’attuale banconota da mille scellini non ha più valore, ora si usa il dollaro che ha soppiantato del tutto la moneta locale.
Tutti i disegni sono entrati a far parte della mostra personale di Flavio Favelli dal titolo Half Dinar, a cura di Davide Ferri, fino al 30 novembre negli spazi Exart, ex deposito Atr di Forlì, sede del festival teatrale Ipercorpo e per la prima volta dedicato al progetto di un artista. Favelli da anni riflette e lavora a partire dal denaro, in questo caso ha realizzato un dipinto che riproduce in grande formato la banconota libica in circolazione negli anni ’70 con al centro una grande raffineria. Oltre a questa l’opera La Nazione, un insieme di vecchie insegne luminose di marchi storici italiani che ricordano gli anni del boom economico. Oil, esposta invece a Palazzo Romagnoli e in dialogo con i dipinti della collezione Verzocchi, è un’insegna abbandonata della Esso, in cui il logo è coperto da un nastro adesivo. Un marchio entrato a far parte del mondo dell’arte grazie a Schifano, che ha uno stretto legame con il tema del lavoro, Gheddafi e il petrolio. È il risultato di una storpiatura fascista dell’originale Exon, presente con questo nome in tutto il mondo, a eccezione del Belpaese, «tradotto» in modo da risultare più affine all’italiano.